Sulla problematicità dell'intervento |
Angelo Aparo | 1994 -2005 |
Le riflessioni che seguono risentono delle perplessità e delle inquietudini che negli ultimi anni si sono accumulate sull'efficacia della pena detentiva come strumento di risocializzazione e, più in particolare, sulla consistenza dei mezzi di cui gli operatori penitenziari dispongono per dedicarsi al recupero dell'individuo a se stesso e al sociale.
Non è raro che, dopo alcuni anni di lavoro all'interno, a qualche operatore capiti di scoraggiarsi di fronte alla pertinace ripetizione da parte dei suoi assistiti di comportamenti devianti. Altrettanto spesso avviene che chi lavora in carcere, superata una certa soglia, continui a svolgere il proprio lavoro senza nemmeno più chiedersi se questo sarà per il suo affidato un vero motivo di evoluzione.
I due atteggiamenti sono meno distanti di quanto sembri: in entrambi i casi gli operatori, disarmati da quello che si presenta come una evoluzione improbabile, che a volte si teme impossibile, ma che rimane soprattutto imprevedibile, lasciano che il cambiamento giunga quando il detenuto vorrà o potrà, subendo rassegnati le contraddizioni di un ambiente che, nonostante la sua funzione dichiarata, sembra affidare l'evoluzione dei suoi ospiti più alle alchimie del caso che allo studio sistematico e alla organizzazione degli strumenti del recupero.
Tutt'altro che esente da queste problematiche, lo psicologo, non molto tempo dopo avere assunto l'incarico, ha modo di rendersi conto che, fra tutti gli operatori carcerari, la sua figura è certamente la più ambigua.
Lo psicologo clinico, quale che sia il suo ambito di lavoro, è per definizione la persona che collabora col suo assistito allo scopo di promuoverne il dinamismo interno e di favorire l'impiego delle risorse di cui il paziente dispone, ma di cui questi non sa giovarsi adeguatamente a causa dei propri conflitti e delle difese adottate per contenerli.
All'interno della struttura penitenziaria, come vedremo dettagliatamente più avanti, egli assolve invece un ruolo che è ora quello di stimolare una riflessione, ora quello di chi giudica, trovandosi a vivere un'altalena che, per il modo in cui avviene, risulta nociva e immobilizzante per sé e per i suoi "clienti".
Può sembrare che l'osservazione sottintenda la pretesa che operatori di una istituzione chiusa, qual è per definizione il carcere, possano disattendere o venire dispensati da una delle due funzioni cardinali che la Costituzione affida alla pena e alla struttura penitenziaria e cioè:
Il timore - abbastanza comprensibile per il non addetto ai lavori, ma che qualche volta sembra prendere anche il legislatore - è legato all'idea che l'efficacia della prima funzione sia inversamente proporzionale a quella della seconda.
Lo stridore fra le due funzioni, tuttavia, non nasce dalla loro natura intrinseca, ma piuttosto per il modo in cui dentro e fuori le mura del carcere esse vengono praticate. Sono infatti la carenza di strutture interne e lo iato che a tutt'oggi persiste fra l'interno e l'esterno delle carceri le ragioni che portano al naufragio sia l'obiettivo di proteggere la comunità che quello di favorire l'emancipazione del recluso.
L'impasse coinvolge lo psicologo penitenziario e la possibilità di esercitare proficuamente la sua funzione di:
A mio giudizio, la difficoltà non nasce dalla condensazione, in un'unica figura, della funzione di guida e funzione di controllo, ma piuttosto dalla povertà di strumenti di cui la prima si può giovare e dalle conseguenti e indesiderabili connotazioni che ne ricadono sulla seconda.
Già nella concettualizzazione freudiana, il Super-Io della persona che gode di un certo equilibrio coniuga di continuo proprio queste due funzioni e, d'altra parte, l'osservazione clinica insegna che la funzione super-egoica viene avvertita tanto più intransigente, invasiva, opprimente, sadica, quanto meno si è in grado di ricavare da essa indicazioni e rassicurazioni sul proprio operato.
Vedremo più avanti come lo scarto fra gli obiettivi cui gli operatori dovrebbero puntare e l'inadeguatezza degli strumenti a loro disposizione faccia sì che sul rapporto fra operatore e detenuto pesino sia i rimproveri che quest'ultimo muove all'istituzione, sia i sensi di colpa di cui l'operatore si carica, come se la coscienza di non potersi fattivamente rapportare al recluso lo rendesse responsabile dell'immobilismo della struttura.
Ne deriva un gioco perverso per cui il detenuto ottiene il paradossale profitto di vedere abbassate le attese dell'operatore nei suoi confronti. Quest'ultimo, per effetto dei suoi vissuti di impotenza, troverà nelle misure alternative extra murarie l'unica soluzione praticabile, nonostante a volte sia questa stessa molto precaria e subordinata a variabili in buona parte casuali (chi offre lavoro al semilibero è un privato le cui motivazioni verso la mano d'opera offerta risultano spesso... imponderabili).
Accade così che del detenuto vengano sollecitati proprio quegli aspetti che la struttura penitenziaria dovrebbe contrastare, mentre risultano disattesi quelli che l'attuale concezione della pena dichiara di voler promuovere.
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L'obiettivo della risocializzazione attraverso l'individuazione e la promozione degli interessi dell'internato costituisce il motivo conduttore della legge N° 354 del 1975 e, in definitiva, esso rappresenta una tensione comune a tutta la letteratura del settore degli ultimi anni.
Malgrado ciò, il mondo carcerario ne costituisce per molti aspetti l'esatta antitesi. Nell'istituto la vita sociale dei reclusi scorre senza che nulla o quasi ricordi il fine ideale che la detenzione persegue.
Dichiarati da subito i termini dell'aporia, vediamo adesso di esaminare il rapporto che il carcerato intrattiene con l'ambiente che lo contiene e lo costringe e il clima generale in cui avviene la relazione fra lo psicologo penitenziario e il suo assistito.
Alla consueta e interlocutoria domanda che tante volte dà avvio a un colloquio, e cioè: "Come va?" gran parte dei detenuti suole rispondere "Come vuole che vada? Lei sa che qui non cambia mai nulla, le giornate sono tutte uguali!".
Di fronte alla latente accusa che spesso la risposta sottende, l'operatore si sente indotto ad osservare che, in fondo, anche la giornata di chi vive in libertà è delimitata da scadenze tendenzialmente uguali. Col tempo, però, egli impara a riconoscere che questa argomentazione viene utilizzata soprattutto per tacitare l'inquietudine e i vaghi sensi di colpa che lo prendono di fronte all'accusa che il detenuto gli sta rivolgendo e cioè: "Non è accettabile che un carceriere chieda al carcerato come sta!".
La protesta non suona infondata se si considera che il tempo che scorre in carcere è soltanto quello del carceriere; quello del carcerato è sospeso, come un timer bloccato in attesa che ricominci la vita che egli potrà condurre all'esterno e, magari, la gara che combatte con le fantasie che lo portano a delinquere.
Salvador Dalì, Memory |
Nel corso della detenzione il tempo del recluso è sospeso perché è sospesa ogni altra meta che non sia quella del tornare liberi. Ogni decisione o accordo che egli conviene con i suoi vari interlocutori è certamente meno rilevante della scadenza della scarcerazione. Il fatto stesso che i confini di spazio e di tempo entro cui il soggetto è ristretto vengano avvertiti come un'imposizione esterna fa sì che anche gli eventi, che entro questi confini si verificano, vengano vissuti come estranei, poco rilevanti per sé, tanto da indurre la genuina percezione che non vi sia nulla di proprio da raccontare, nulla per cui alla domanda "come va?" si possa rispondere in prima persona.
La risposta sembra essere "come vuole che vada in uno spazio e in un tempo che non sono i miei?". Fin dall'inizio del colloquio il detenuto segnala che ha poco da comunicare se non la voglia di non essere lì, lì nel carcere, lì al colloquio con lo psicologo. E d'altra parte egli soffre e/o si compiace dell'incapacità di appropriarsi di un presente nel quale non accade nulla o quasi da cui egli riesca a sentirsi rappresentato, salvo le fantasie di fuga.
Vincent Van Gogh, La ronda dei carcerati |
Quello che per il paziente comune nasce come progetto di far maturare il proprio rapporto col presente, per il carcerato corrisponde alla fantasticheria di essere altrove, in un altro spazio-tempo, dove possono essere collocate fantasie di affermazione personale e di appagamento che prescindono completamente dai limiti e dai legami che egli intrattiene attualmente con le persone e con le cose.
Il campo affettivo che caratterizza l'oggi del detenuto è segnato da un vettore di gran lunga dominante sugli altri: l'attesa del momento in cui il timer potrà essere riattivato. In mancanza di investimenti sugli oggetti attuali, la sua giornata viene popolata da fantasticherie di essere altrove, così che il presente difficilmente guadagnerà una consistenza tale da potere essere raccontato.
Ma vivere di fantasticherie, a conti fatti, consente al recluso un rapporto meno difficile con la realtà che lo circonda, nel senso che, l'espediente regressivo, gli permette di lasciarsela passare addosso soffrendone meno i limiti.
Tutto ciò incide sul rapporto con lo psicologo in quanto sottrae materiale utile su cui tessere la trama della relazione, ma soprattutto perché l'investimento sulla relazione risulta in contrasto sia con le spinte regressive che lo stesso recluso vive, sia con l'assetto di una struttura che, in conseguenza dei suoi limiti, trova nell'estraniamento del detenuto dalla realtà un fattore stabilizzante.
Un altro punto essenziale della vita internata riguarda l'impossibilità o l'estrema difficoltà di impiegare costruttivamente le energie personali.
Noi tutti abbiamo esperienza di quanto sia gratificante riuscire a incidere sull'ambiente dove viviamo, modellandolo gradualmente sui nostri desideri. Dalla casalinga all'uomo politico, l'essere umano matura la sintonia con se stesso anche in relazione a come e a quanto può contribuire alla evoluzione della sua realtà di riferimento.
La modalità in cui viene esercitata la funzione del controllo è tale da favorire nel detenuto la delega della funzione stessa al personale di custodia e da fargli riconoscere come sua istanza personale soprattutto la motivazione a sottrarsi al controllo. Più semplicemente, il recluso vive condizioni che alimentano la sua voglia di gabbare l'agente e l'istituto in genere, mentre gli rendono difficile interiorizzarne il mandato.
L'immagine interna dell'autorità precaria e/o vessatoria, proiettata su quelle figure della custodia che, in qualche modo, ne costituiscono un ricettacolo adeguato, conferma al carcerato la fantasia dell'impossibilità di addivenire ad un dialogo costruttivo con l'autorità, avallando la rigida ripartizione dei ruoli fra chi controlla e chi al controllo cerca di sottrarsi.
Il carente senso di responsabilità di chi abitualmente pratica il reato viene ratificato da un altro aspetto della vita carceraria: l'internato, tenuto lontano dalla propria famiglia, si trova nella condizione di non potersi prendere attivamente e responsabilmente cura dei propri familiari.
Fatta eccezione per i pochi casi di chi, lavorando all'interno, manda una parte del proprio salario a casa, la maggior parte dei detenuti si trova costretta a regredire a una condizione infantile per cui sono i coniugi o i genitori a farsi carico di lui, portando biancheria e alimenti, adoperandosi per cercargli un lavoro all'esterno in prospettiva della semilibertà, ecc.
E' facile convenire che il reo è in genere una persona immatura sul piano degli affetti, ma è ancora più evidente che la condizione infantilizzante che egli vive non favorisce certo una maturazione in tal senso.
Rileviamo ancora una volta che al detenuto vengono comunicati due messaggi antitetici, di cui:
La vita carceraria, se da un lato offre poco spazio alla realizzazione concreta delle istanze costruttive, dall'altro non favorisce nemmeno la costruzione di quello spazio interiore indispensabile perché l'immagine di sé e della propria relazione col mondo divengano positivamente articolate.
Con un gioco di parole potremo dire che la vita carceraria è "nemica del fare e amica dell'agire". Accanto alla impossibilità di fare per sé e per gli altri, o, più genericamente, di entrare nel ciclo produttivo, il detenuto versa in condizioni per cui lo spazio interno per vivere emozioni, progetti, idee è certamente coartato.
La rabbia, il dolore, i conflitti - che vengano accentuati dalla convivenza forzata e dalla frustrante condizione dell'attesa - trovano strada più facile nella proiezione all'esterno e nel comportamento violento che nell'articolazione verbale. Non è raro che, per confermare il proprio grado di prestigio all'interno del gruppo, il recluso ostenti atteggiamenti violenti o che, per avere un colloquio col giudice, ricorra all'autolesione.
Paradossalmente l'ambiente fisico e i ritmi che i carcerati vivono disincentivano non l'attitudine a concepire crimini, bensì la consuetudine a organizzare sentimenti, intenzioni e, in altre parole, a praticare investimenti affettivi normali.
Un sintomo piuttosto ricorrente entro il mondo carcerario, correlato ai vissuti di espropriazione di cui s'è detto prima, è costituito dall'autolesionismo. Il fenomeno è certamente legato a variabili contingenti, come lo stile più o meno autoritario con cui il singolo istituto viene condotto o le condizioni più o meno stressanti in cui vive il corpo di custodia. Il fenomeno rimane tuttavia molto diffuso e parlarne ci offre l'opportunità di descrivere uno squarcio significativo del mondo inframurario.
L'alta percentuale di gesti autolesionistici (lamette e molle delle brande ingoiate, tagli più o meno profondi su tutto il corpo, digiuni a oltranza, tentativi di auto-impiccagione) conferma che il detenuto, persona poco usa all'elaborazione delle proprie istanze aggressive, trovi nella impossibilità di estroflettere la propria rabbia e la propria impotenza un limite intollerabile.
Spesso l'autolesione viene utilizzata come una specie di salasso per lasciare defluire cariche aggressive che non trovano altri sbocchi possibili. Infliggersi delle ferite costituisce anche un modo per "sentirsi", per confermare a se stessi d'essere capaci di provocare e provare sensazioni e dunque di essere a un tempo la persona che determina e quella che vive una emozione, sia pure sotto forma di dolore.
In conseguenza della sua storia problematica (di solito ricca di arbitri patiti in età precoce), colui che è recluso ha una vivida esigenza di mettere in scena i ruoli di chi infligge e di chi subisce un'offesa. Tuttavia, la consapevolezza della sua "debolezza contrattuale" lo induce a cortocircuitare il processo all'interno della sua stessa persona. La limitata e spesso ben controllata violenza su se stessi assolve così la funzione di non esporre alla risposta afflittiva che la struttura potrebbe adottare contro l'estroflessione di aggressività.
Accanto a queste considerazioni, non va dimenticato però che l'offesa al proprio corpo in carcere costituisce uno degli strumenti più efficaci per segnalare in maniera "significativa" alle autorità in grado di provvedervi uno stato di disagio. Questo, di volta in volta, riguarderà la difficoltà di avere colloqui con i familiari, il bisogno di un trasferimento in altro carcere o di un colloquio col giudice per una situazione giudiziaria stimata ingiusta.
L'autolesionismo diventa così una comunicazione con finalità ricattatorie che usa strumentalmente il corpo, il quale nel corso della detenzione, inserito in uno spazio che non è quello scelto dal soggetto, in un tempo nel quale questi non può riconoscere i propri progetti, è divenuto un bene da gestire in comproprietà con l'amministrazione penitenziaria.
Il fenomeno, comprensibilmente, si verifica con maggiore frequenza laddove i contatti col mondo da cui si proviene e le conferme che se ne ricavano sono più fragili (i detenuti extra comunitari, i senza-famiglia).
Privato della possibilità di gestire tempo e spazio, il recluso, in una certa misura, vive il gesto autolesionistico come un attacco al patrimonio dell'Amministrazione e delega al futuro il compito di restituirgli la "proprietà" del suo corpo. Gli attacchi autolesionistici diventano quindi attacchi verso un aggressore esterno che lo sovrasta e domina le coordinate nelle quali il suo corpo vive. A ben guardare, la dinamica ripropone la provocazione che qualche volta i bambini rivolgono ai genitori, facendosi del male.
Questo è tanto più vero nel caso dell'attacco cruento al proprio corpo; il digiuno, pur comportando un attacco rivolto verso l'interno, è sempre legato ad una consapevole richiesta di aiuto o ad un ricatto mirato a chi viene ritenuto responsabile della propria condizione.
Anche in questo caso la funzione dello psicologo può diventare quanto mai ambigua. Non sapendo come meglio rispondere al comportamento sintomatico, la struttura chiede all'esperto di comprenderne il senso e di stimolare nel detenuto la maturazione di codici espressivi più adeguati. Allo psicologo rimane la facoltà di interrogarsi sulla modalità deontologicamente più lineare di contattare chi giunge al sintomo, nella consapevolezza della scarsa incisività delle parole.
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L'esperto - questa è la definizione che il Ministero di Grazia e Giustizia ha coniato per gli psicologi e i criminologi che lavorano come consulenti all'interno del carcere - viene introdotto in ambito penitenziario nel 1975 con la legge N° 354.
La legge suddetta prevede che l'esperto operi a fianco di altri operatori:
In collaborazione con gli operatori suddetti, all'esperto viene affidato l'incarico di effettuare sul e col detenuto un lavoro di "Osservazione e trattamento". Idealmente, lo specifico del suo lavoro prevede che:
Dal 1988 è stato istituito un servizio "Nuovi Giunti", specificamente finalizzato a prevenire tentativi di suicidio da parte di chi potrebbe reagire autolesionisticamente al trauma dell'arresto e della carcerazione.
A tale scopo, poco dopo il suo ingresso in carcere e subito dopo essere stato sottoposto alla visita medica, il detenuto viene esaminato dallo psicologo di turno, che darà poi indicazioni adeguate alla custodia per cautelare il soggetto stesso e la struttura da possibili rischi autolesivi.
La funzione dello psicologo prevede anche il sostegno e/o il trattamento dei reclusi che ne chiedano spontaneamente l'intervento. Nella migliore, ma anche più rara delle ipotesi, la richiesta avviene all'incirca come in un comune servizio sanitario esterno: la libera denuncia di un disagio per venirne a capo.
Le condizioni detentive, però, non favoriscono questa linearità. Qui la situazione è molto diversa da quella che può vivere il paziente in stato di libertà. In carcere la richiesta è quasi sempre collegata all'obiettivo di sottrarsi in un modo o nell'altro alla pena o agli aspetti meno tollerabili della stessa. Le dichiarazioni sulla claustrofobia, sul malessere dei familiari o dei figli corrispondono, in un gran numero di casi, a tentativi di ottenere forme alternative alla detenzione (arresti domiciliari, permessi, ecc.). Lo stesso succede con le richieste fatte al medico.
A volte l'intervento è richiesto dalla direzione allo scopo di sostenere il recluso di fronte a una situazione familiare particolarmente ansiogena o per contenere comportamenti apparentemente insensati.
Nonostante le notevoli responsabilità, lo psicologo ha pochi e mediocri strumenti di cui giovarsi:
L'ufficio
In molte carceri, tanto più in quelle di vecchia costruzione, l'ufficio nel quale egli incontra il detenuto è costituito da una cella o da un locale da condividere con il corpo di custodia. Ciò è dovuto sia alla penuria di spazi che alla necessità di evitare che il recluso esca dal reparto in cui è ubicato. Non è raro però che, oltre all'aspetto sgradevole, il locale si trovi mancante persino di semplici e minimali strumenti di lavoro come, ad esempio, le sedie dei due interlocutori. Mancano insomma le premesse per cui l'ufficio possa sembrare minimamente dignitoso, prima che funzionale.
E' difficile che in condizioni simili il soggetto possa sentirsi adeguatamente seguito. Né migliora la situazione il sovraffollamento e la conseguente insufficienza di personale che perpetuamente caratterizzano gran parte delle carceri.
Il Colloquio clinico
Il primo strumento di cui lo psicologo si serve, anche nell'ambito penitenziario, è il colloquio clinico. Le tensioni e i conflitti che caratterizzano il contesto carcerario, fanno sì, però, che la relazione fra operatore psicologico e detenuto sia viziata dalla tendenza del secondo a:
Il colloquio carcerario si caratterizza strutturalmente per una divergenza di finalità fra esaminatore ed esaminato, che aggiunge resistenze a quelle che già ogni colloquio implica e che ostacola nel "paziente detenuto" la motivazione a conoscere la propria storia e a lavorare sulla propria organizzazione psichica.
Non va dimenticato, inoltre, che il colloquio fra psicologo e recluso è sempre viziato dalla presenza di una committenza esterna ai due. Anche quando a chiedere i colloqui sia lo stesso detenuto, è difficile che questi possa dimenticare che lo psicologo rimane comunque una figura dell'istituzione che decide sulla sua libertà. Ciò comporta che sulle motivazioni e sul materiale offerto nel corso dei colloqui vengano esercitate alterazioni volontarie che il paziente comune non ha ragione di operare.
La formazione
Nel 2005, a distanza di 30 anni dalla nascita della legge che prevede la presenza dello psicologo nelle carceri, non è ancora previsto alcun sistematico momento di formazione, di supervisione, di aggiornamento o di confronto.
Questo, oltre ad essere manifestamente diverso da quanto accade in altre istituzioni, comporta che ciascun esperto possa procedere nel proprio lavoro ed esibire le proprie considerazioni secondo un codice del tutto personale. Ciò accentua il senso di isolamento e di smarrimento del professionista, complica l'intesa con gli altri operatori e ostacola un'equa valutazione delle caratteristiche del detenuto e delle opportunità che gli vengono offerte.
Manca insomma una funzione di coordinamento delle varie individualità: i contributi, la preparazione, l'originalità del singolo professionista rimangono patrimonio soggettivo, nel mentre vengono lasciate al caso o all'iniziativa personale la maturazione delle competenze specifiche e la ricostruzione storica del lavoro psicologico nella struttura penitenziaria.
Questo diventa tanto più grave laddove l'unica persona investita della funzione di coordinamento sia il direttore dell'istituto o - se la struttura è di grosse dimensioni - uno dei vicedirettori, cioè un funzionario cui non è richiesta alcuna specifica competenza in campo psicologico e che, oltretutto, viene trasferito da un carcere all'altro con tale frequenza da rendere difficile la maturazione di un'intesa con il personale con cui collabora.
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Come abbiamo visto, allo psicologo è teoricamente richiesto di promuovere una elaborazione degli assiomi immaginari che, presumibilmente, sono all'origine del comportamento deviante dei suoi assistiti. Ci sembra però quantomeno inquietante che la nostra società e le leggi che ne sono espressione pretendano di intervenire costruttivamente sui processi soggettivi che hanno generato il comportamento deviante collocando l'individuo da "curare" in un ambiente che in larga misura rafforza quello stesso senso di esclusione e di abbandono che, in un grandissimo numero di casi, è all'origine del suo teatro psichico.
Una seria disamina sugli obiettivi dichiarati richiede, dunque, che ci si interroghi sulla genesi e sulla funzione dei tratti più comuni dell'immaginario del disadattato.
Nell'ambito familiare, di solito, il futuro deviante riceverà le prime cure in una situazione contraddistinta da scarsa tolleranza verso le tipiche manifestazioni infantili e caratterizzata da ricorrenti e burrascosi conflitti. Difficilmente egli potrà sentirsi considerato "his majesty, the baby" (v. Freud, 1914) o godere di una madre "sufficientemente buona" (v. Winnicott, 1971).
Gli accessi d'invidia verso i fratelli, generalmente numerosi, e le frustrazioni delle sue richieste saranno certamente più frequenti della loro comprensiva accettazione da parte dei genitori e dell'aiuto verso una graduale disillusione delle prime fantasie onnipotenti (v. Winnicott, 1958).
Le prime separazioni dalla madre saranno meno temperate di quanto possa accadere in una famiglia di medio reddito e gravata da minori difficoltà di integrazione. Il senso di vuoto e di abbandono, conseguenti agli oneri di cui oggettivamente i suoi genitori devono farsi carico, saranno a loro volta più frequenti di quanto possa accadere per altre fasce sociali.
Con queste premesse viene meno quello che Enzo Funari chiama "il dono reale" e cioè la somma delle condizioni affettive e materiali che consentono ai genitori quella disponibilità e quella oblatività che sono il presupposto necessario perché il bambino si senta accudito e accettato. Si verranno a creare invece
L'orientamento delinquenziale sarà inoltre facilitato da un padre che si presenti inetto, ubriacone, perdente, sottomesso alla moglie o, al contrario, autoritario, prevaricatore, ingiusto, violento verso la moglie e i figli stessi.
In entrambi i casi il bambino rimane impossibilitato a fruire del positivo esercizio delle funzioni paterne. Nel primo, gli verrà meno il supporto per conseguire la propria separazione dalla madre; nel secondo egli si sentirà attivamente ostacolato nell'affermazione di sé e nel processo di individuazione.
L'inettitudine e/o la prevaricazione del padre lo priveranno comunque della possibilità di fruire di una positiva identificazione con lui e di costituire dentro di sé quegli oggetti e quelle strutture della personalità che fanno poi da supporto per ulteriori identificazioni con le figure rappresentative dei valori ufficiali. Le rinunce senza adeguate contropartite, le proibizioni del tutto inesistenti o palesemente arbitrarie faranno sì che il rapporto con i genitori segua più spesso la strada dell'imitazione che della identificazione.
I comportamenti dei genitori, anche se poco rassicuranti o francamente violenti, saranno fatti propri in funzione della loro efficacia come strumenti di difesa verso i conflitti col tessuto familiare e, più tardi, col contesto amicale e scolastico. L'atteggiamento violento prevarrà sulla disposizione ad elaborare i propri impulsi e i propri conflitti e a simbolizzare le proprie istanze in maniera compatibile con le norme codificate.
In queste condizioni si svilupperanno facilmente una rigidità interna tendenzialmente sadica e una particolare propensione alla proiezione dei propri fantasmi persecutori sugli oggetti esterni. L'immagine del Sé rimarrà contrassegnata da modelli di comportamento e di autoaffermazione imperniati su un approccio onnipotente alla realtà.
Accanto a questo contesto familiare, il disadattato ha vissuto di solito gli anni fino all'adolescenza in quartieri periferici e spesso in un ambiente geografico e culturale diverso da quello d'origine. La sua inferiorità economica e culturale rispetto ai compagni di gioco e di scuola ha esasperato l'invidia, l'ostilità, il desiderio di rivalsa verso gli altri.
Il deviante d'oggi, di solito, ha vissuto nel passato una certa difficoltà ad integrarsi nell'ambiente, ha vissuto come un disvalore i tentativi più o meno fallimentari dei genitori di adattarvisi e, in funzione delle inevitabili frustrazioni che ciò comporta, ha percepito il contesto sociale come un agente ostile, se non del tutto persecutorio. Le prime figure istituzionali con cui egli viene a contatto e i mass-media gli comunicano inoltre norme di comportamento che appaiono poco riconducibili e poco appropriate alle sue condizioni reali.
Agli occhi del bambino le figure parentali diventano dunque responsabili sia delle loro carenze interne, sia della incapacità di garantire le condizioni per le quali le norme sociali appaiono costituite. I genitori risultano, in definitiva, poco attendibili come agenti utili a trasmettere norme e modelli dai quali essi stessi non appaiono ben garantiti.
La scissione fra i modelli culturali suggeriti e l'effettiva possibilità di praticarli, troppo difficile da colmare, penalizzerà duramente l'immagine di sé, così che la ricerca della gratificazione narcisistica e immediata avrà la meglio sulla disponibilità a modulare le proprie fantasie di affermazione attraverso il riconoscimento dei propri limiti, la tolleranza delle frustrazioni e l'impegno nella costruzione.
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La norma sociale, proprio perché presuppone una parità di diritti fra tutti coloro che ad essa fanno riferimento e da essa si attendono garanzie, viene vissuta dal disadattato in contrasto con quanto egli ha potuto ricavare dalla propria esperienza personale. L’adolescente che si avventura nei primi furti non sente di avere cittadinanza nel mondo delle garanzie.
La norma non è assente nello spazio psichico del delinquente, bensì presente come una comunicazione poco attendibile, che lascia il destinatario del messaggio difeso e distante da chi lo ha codificato. E' in relazione a questi due interlocutori che vedremo di ricostruire il senso del gesto delinquenziale e della comunicazione ad esso inerente.
Osserviamo innanzitutto che la sfiducia che la norma possa costituire una tutela della propria libertà e la distanza emotiva che l'aggressore mantiene dalla sofferenza della vittima sono realtà psichiche strettamente legate. Probabilmente, è proprio la pertinace resistenza a sintonizzarsi con i sentimenti della vittima ciò che portava Freud a definire i delinquenti come le persone caratterizzate da quella "coerenza narcisistica con cui sanno tenere lontano tutto ciò che potrebbe rimpicciolire il loro Io" (Freud, 1914).
Alla tesi freudiana ci sembra utile aggiungere che il delinquente, con la propria trasgressione, si prefigge inconsciamente di scontrarsi con un limite che, per la sua forza, lo contenga o, per la sua debolezza, ne avalli le fantasie onnipotenti. Egli è, in fondo, alla ricerca compulsiva di una minaccia esterna con cui misurarsi: la minaccia della legge, continuamente sfidata, in quanto deputata ad avallare o punire i suoi progetti di affermazione narcisistica.
Il delinquente può essere inteso come quel giocatore che, indipendentemente dal fatto che vinca o perda col suo azzardo, fa sempre i conti col fato e cioè con una figura che è da lui inconsciamente incaricata di comprovare o smentire la sua pretesa di affermarsi nell'opposizione ad un fantasma che lo sovrasta. In questo modo egli mette ripetutamente in gioco l'immagine onnipotente di sé, affidando alla sua personale perizia, alla sorte in quanto tale e all'abilità della controparte il compito di confermarla o smentirla.
La trasgressione, oltre a procurargli un utile e a liberarlo di una tensione aggressiva, rappresenta un ennesimo tentativo di recupero di ciò di cui negli anni dell'infanzia si era sentito defraudato e, allo stesso tempo, una richiesta di conferma della propria identità, quella identità che, a suo tempo, era stata attivamente ostacolata o non adeguatamente supportata.
Come il sintomo tende a ripetere e cioè a rieditare i conflitti che lo hanno prodotto, il gesto deviante opera per il suo attore una riedizione delle carenze, dei traumi e dei conflitti che hanno caratterizzato la relazione con una madre meno presente del necessario e con un padre, che in quanto mediatore d'ogni istanza sociale, si era trovato a professare delle norme senza garantire le condizioni per farle proprie.
Come l'adolescente tende a reperire nelle relazioni transferali i nuclei salienti che hanno dato origine alla sua sofferenza non solo per una cieca coazione a ripetere, ma anche per trovare nella ripetizione un punto d'attacco utile per trasformare le premesse del suo malessere (v. Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990), allo stesso modo il delinquente ripete le vicende delle sue relazioni primarie, cercando per esse un esito diverso.
Diremo allora che il gesto delinquenziale, pur se avviene al di fuori di conflitti interni coscienti, può essere inteso come un messaggio che si rivolge a surrogati delle imago parentali e dunque una comunicazione mirata a mantenere in vita e, allo stesso tempo, modificare il rapporto con tali figure.
Colgo nella trasgressione un impulso polivalente, un movimento spesso scomposto e disarmonico da un ambiente sentito opprimente e inospitale verso un'area dai confini ancora incerti. Tale movimento rimane a volte una sequenza di sussulti scoordinati e sterili, che non liberano dall'oppressione chi li vive e che spesso investono vittime innocenti; altre volte, la trasgressione può dare esito alla costruzione di nuovi spazi, alla definizione di nuove regole entro cui inaugurare più fecondi equilibri. |
Winnicott intende i gesti del bambino contro l'altro come comunicazioni all'altro perché gli vengano restituiti il modo e la misura per rimodellare l'approccio onnipotente ai derivati del corpo e delle funzioni materne, per ridefinire i contorni della propria identità, per reinterpretare il senso della proprietà dell'oggetto materno (D. Winnicott, 1958). Da qui, per lo stesso autore, la tendenza antisociale si manifesta come una speranza che il gesto deviante possa suscitare una risposta riparativa.
Via via che si producono i vari comportamenti dell'holding materno, il bambino esperisce che la madre ha una sua specifica modalità di condurre il rapporto con lui. Questa potrà essere tale che egli si senta accudito e contenuto o, al contrario, trascurato e lasciato troppo spesso in balia delle sue spinte pulsionali e della sua stessa aggressività.
Il bambino, nel caso più favorevole, assimilerà la capacità di contenere se stesso, di accettare i propri impulsi senza sentirsene sopraffatto, di investire fiduciosamente gli oggetti. Nel caso opposto, invece, egli non raggiungerà mai una sufficiente integrazione; le sue spinte pulsionali, non essendosi creato lo spazio interno per la loro elaborazione, potranno essere smaltite solo attraverso l'agito; l'aggressività dovrà essere espulsa tanto più velocemente quanto più destabilizzante sarà avvertito il rischio di lasciarla agire contro i propri già precari oggetti interni.
Il tentativo di ripresentare a se stesso le prime vicende con la madre, pertanto, sarà teso dialetticamente fra:
Con intensità commisurata allo stile delle vicende con la figura paterna, il furto e/o l'aggressione verso terzi veicoleranno di converso:
Alla figura che rappresenta le istituzioni il delinquente chiederà ripetutamente di rendere credibili quelle norme che a suo tempo gli erano state maldestramente codificate, o, al contrario, di legittimarlo come nemico (la dinamica è più facilmente riconoscibile, se si pensa agli anni del terrorismo).
Purtroppo le vicende d'oggi ci dicono che l'immagine dell'autorità con cui il deviante viene a contatto non è certo tale da favorire una bonifica dei suoi oggetti interni o un'evoluzione costruttiva del suo mito personale.
L'incuria delle istituzioni e la manifesta discrepanza fra i modelli di comportamento professati e i comportamenti concretamente riconoscibili delle figure designate a rappresentare i massimi valori etici (l'uomo politico, il magistrato, la custodia penitenziaria) gli ripropongono un quadro del suo rapporto col mondo che non si differenzia particolarmente da quello che lo aveva condotto ai primi reati.
La figura eroica che egli interpreta quando tenta di rifondersi di ciò che la sua storia gli ha precluso, anziché essere ridimensionata, viene esaltata dal fatto che la scarsa credibilità delle istituzioni gli conferisce implicitamente lo statuto e la dignità del nemico.
Attraverso le vicende legali e penitenziarie il delinquente troppo spesso impara a riconoscere nelle figure normative l'eco delle figure parentali interne, anziché i genitori ideali, ai quali, con le sue trasgressioni, chiedeva di riorientare la propria storia.
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Una domanda utile a sintetizzare le difficoltà dello psicologo penitenziario riguarda le forze con cui egli può formulare una alleanza attendibile. Se si limita ad agire dentro i confini del carcere, l'esperto rischia di venire stritolato dai conflitti e dalla sensazione di abbandono da parte delle istituzioni che cittadini e detenuti vivono di quà e di là dalle mura.
Ci sembra che oggi parte del suo lavoro possa consistere nel promuovere, insieme agli operatori del settore e insieme alle forze sociali esterne, la riflessione dei suoi contrapposti clienti sulle attese e sui preconcetti con cui ciascuno si dispone alla risposta dell'altro; sulla dicotomia fra vittime e oppressori, meno radicale di quanto sembri agli interessati; sul timore che il riconoscimento della realtà dell'altro possa togliere spazio alla propria.
Col gruppo dei colleghi interni l'esperto cercherà di conseguire maggiori spazi e investimenti economici per le attività all'interno e per rendere più vivace la comunicazione e lo scambio fra l'interno e l'esterno della struttura.
Alla supervisione e al feedback che potrà ottenere nel confronto con le forze sociali esterne lo psicologo farà riferimento per meditare sulle ideologie e sulle proiezioni da cui nessuno è immune e per verificare l'efficacia dei progetti in cui confida.
Non va dimenticato, infine, che sul vasto e complesso tavolo da gioco di cui parliamo agiscono gli orientamenti che le attuali forze sociali e politiche hanno e perseguono e che non esiste un efficace impegno trasformativo che da queste possa prescindere.
Per quanto mi riguarda, il gruppo della trasgressione, con il suo tentativo di promuovere all'interno e all'esterno della struttura alleanze e riflessioni mirate costituisce dal 1997 un metodo e un team di detenuti e studenti, con i quali si esplora uno dei modi possibili per rendere esperienza reale l'obiettivo ideale della Legge: promuovere l'evoluzione del cittadino e delle sue relazioni con la collettività.
Abbiamo visto che il disadattato tenta di compensare carenze e fratture interne attraverso l'esaltazione di una frattura fra sé e il sociale. Abbiamo evidenziato la difficoltà di bonificare gli oggetti interni in presenza di figure esterne che confermino l'esito delle prime vicende affettive. Abbiamo segnalato l'incongruenza fra un progetto importante come la risocializzazione del condannato e dei mezzi così approssimativi da far dubitare della volontà di aver cura del progetto dichiarato.
Non abbiamo ancora detto a sufficienza, però, che nella problematica di cui ci occupiamo ha un ruolo di primaria importanza anche la relazione che nella nostra società esiste fra struttura penitenziaria e mondo esterno.
Finché il carcere viene considerato una struttura autosufficiente ad espletare la funzione emancipativa che le si attribuisce, gli operatori interni, siano essi psicologi o agenti di custodia, finiscono miseramente per assolvere la funzione di dissimulare la propensione, quanto mai anacronistica, che la società stessa ha di dimenticarsi del problema della devianza.
Oggi, invece, è diventato improcrastinabile chiarire quale funzione il consorzio sociale affidi alla pena in generale e al carcere in particolare:
Questa realtà, che venga esaminata secondo una lettura etica o che venga conteggiata secondo un approccio economico, non consente di distrarsi dalla constatazione che l'applicazione attuale della pena non ottiene quello che persegue. Occorre pertanto procedere ad un ripensamento degli investimenti del bene pubblico nel settore, avendo il coraggio di affrontare il malcontento e la franca disapprovazione di chi pensa che il televisore in cella dimostra che lo Stato tratta il delinquente meglio del comune cittadino.
Il grado di civiltà di una società si misura anche in funzione dell'atteggiamento che essa assume in risposta ai comportamenti devianti che in essa si generano e che essa stessa, in qualche misura, alimenta.
Una società come la nostra non può permettersi di trastullarsi nel fittizio dilemma con cui si cerca di decifrare se la devianza venga generata soprattutto da fattori storico-genetici individuali o da quelli socio-ambientali.
Il nostro consorzio sociale, le nostre leggi, i nostri investimenti economici, dunque, non possono essere improntati sull'idea che il comportamento deviante sia un epifenomeno della normale vita sociale, una degenerazione accidentale dei sani processi vitali del corpo sociale.
La devianza non è un cancro; essa non può venire confinata nell'area della patologia individuale; non ci rimane che confrontarci con i processi quotidiani che la generano.
Aliprandi M. T, Pelanda E., Senise T.
1990 - Psicoterapia breve di individuazione, Milano, Feltrinelli.
Freud, Sigmund
1914 - Introduzione al narcisismo, Torino, Boringhieri, in Freud Opere.
1922 - Dostoevskij e il parricidio, Torino, Boringhieri, in Freud Opere.
Gaddini, Renata
1979 - Il Processo Maturativo, Studi sul Pensiero di Winnicott, Padova, Cleup Editore.
Winnicott, Donald
1958 - Throught Paediatrics to Psycho-Analysis, London, Tavistock
Publications, trad. it. Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Firenze, Martinelli,
1971 - Playing and Reality, London, Tavistock Publications, trad. it. Gioco e Realtà, Roma, Editore Armando Armando, 1974.
Per me stesso e a nome del gruppo attuale, ringrazio le numerose persone che hanno contribuito e contribuiscono a far sì che, a distanza di sette anni, il gruppo sia in buona salute.
Emilia Patruno, direttrice del giornale on line ildue.it e, per molti anni, inestimabile collaboratrice.
Luigi Pagano, direttore di San Vittore per 15 anni, fino a giugno 2004.
"… in un carcere non accade nulla di buono che non sia voluto dal direttore …"
Maria Rosaria Sodano, Magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Milano. "… per i detenuti poter parlare e sentire riconosciuto il loro impegno da un magistrato è la cosa più importante … "
Alcuni dei detenuti con i quali il gruppo è nato: Alberto Spada, Sergio Cusani, Romeo Martel, Alessandro Carrino, Santino Stefanini, Marcelo Nieto, Pippo Natoli, Paolo Teti.