Ragazzi a rischio

Claudio Nocera

05-02-2004  

In quel tempo avevo solo quattordici anni e stavo ripetendo la terza media. Era giugno, periodo d’esami, quelli che in teoria ti portano ad un bivio: o prosegui gli studi o in alternativa vai a lavorare.

Fui ingaggiato, assieme a quattro/cinque amici coetanei, da un aiuto-regista che tutte le sere ci notava sostare sotto casa sua, uno dei nostri punti di ritrovo del quartiere; ci contattò proponendoci di andare a fare un provino in uno studio cinematografico nella zona di Baggio. Accettammo e ci recammo all’appuntamento, peraltro senza esserne troppo convinti, non sapevamo neanche di cosa si trattasse e non pensavamo certo di poter diventare stelle del cinema.

Il provino fu una cosa semplice e veloce; uno sgabello e una telecamera, qualche domanda formulataci a caso (presumo più per poterci inquadrare attraverso l’obbiettivo che non per conoscerci realmente). Ci presero tutti e ci spiegarono il tema del film, in realtà si trattava di un cortometraggio, una specie di film-documentario dal titolo “ragazzi a rischio”, dove un narratore spiegava e noi seguivamo le istruzioni.

Furono assegnati dei ruoli, io ero l’amico fidato del capo banda, una specie di braccio destro. Credo che questo ruolo mi fu assegnato perché, nel colloquio-provino, venne fuori che, in realtà, io e quello che nel film rivestiva il ruolo del capo eravamo amici per la pelle. In pratica dovevamo rubare, fare rapine, scippi, subire inseguimenti da parte della polizia, arresti, processi…

Chissà perché fummo scelti proprio noi! Forse il destino, forse per la coincidenza di frequentare la zona di residenza dell’aiuto-regista, ma chissà perché in quei ruoli ci trovavamo bene e non c’era bisogno neanche di troppe istruzioni da parte del regista. Era come se in quei ruoli fossimo stati tutti attori consumati, eppure avevamo solo quattordici/quindici anni e neanche tanta esperienza in merito. Sicuramente qualche piccolo peccatuccio ma niente del genere di quello che interpretavamo nel film. Ognuno di noi esprimeva il suo ruolo molto spontaneamente, ci divertivamo, per noi era un gioco e ci piaceva da matti. Nessuno di noi ha mai pensato: “Ma che figura ci facciamo con quelli che poi vedono il film?”.

I lavori andarono avanti che fu una meraviglia, il tutto durò circa due settimane a ritmo serrato, con riprese, ovviamente, anche notturne. Al termine, ricordo che ci fu una mega cena in un ristorante cinese nei pressi dello studio di Baggio. Eravamo tutti contenti e soddisfatti del lavoro e ci venne pure consegnato un assegno come compenso. Certo non era un cachet di quelli hollywoodiani, però ai quei tempi e a quell’età non erano da buttare via. Ma poi, forse, a noi neanche interessavano i soldi, c’era piaciuta l’idea, l’esperienza. Eravamo al ristorante cinese a festeggiare il nostro piccolo capolavoro che da lì a poco sarebbe stato trasmesso in Rai.

Ci siamo salutati con la promessa di risentirci nel caso ci fosse stato ancora bisogno di noi per una particina in qualche altro film. Non si è fatto sentire più nessuno ma, a dir la verità, non ci siamo interessati neanche più di tanto per vedere se c’era ancora spazio per noi.

Arrivai all’esame senza aver aperto neanche un libro, non che durante l’anno l’avessi fatto spesso. I professori sapevano di questa mia esperienza per il fatto che mi ero dovuto assentare qualche giorno da scuola per fare le riprese. In pratica, all’esame non si parlò d’altro, tranne qualche domanda cui forse anche un bambino di quinta elementare avrebbe risposto.

Fui promosso, ma in sostanza mi fu consigliato di andare a lavorare o al massimo di frequentare qualche corso professionale per raggiungere una specializzazione. Così fui indirizzato e io non me lo feci ripetere due volte.

Decisi di cercarmi un lavoro, ma c’erano le vacanze estive e la scusa era buona per rinviare tutto a settembre. Continuavo a vedermi con i miei amici, ma qualcosa cominciava a cambiare. I ruoli che avevamo recitato nel film iniziammo ad interpretarli anche nella realtà di tutti i giorni e, proprio come nel film, per divertirci. Era un gioco, tutto ciò che facevamo per noi era un gioco, non prendevamo nulla sul serio. Ci divertivamo restando ognuno fedele al ruolo interpretato nel film, i soldi non ci interessavano, quello che si tirava su si spendeva, non c’erano manie di grandezza.

E proprio come nel film non tardarono ad arrivare i primi inseguimenti con la polizia, i primi arresti, i processi, e nel carcere minorile, Cesare Beccaria, a studiare come fare a scappare, perché a noi piaceva divertirci.

Poi col passare del tempo cambiarono tante cose e pure noi. Di quella compagnia qualcuno oggi non c’è più. Gino è morto bruciato vivo in una cella, proprio qui a San Vittore, mentre sua mamma, rinchiusa al reparto femminile, sentiva le sue grida. L’avevano arrestato la mattina e la sera ha fatto quella fine orrenda. Io sono qui con un fine pena, qualcuno di noi oggi non ha neppure quello.

L’unico che non ho mai incontrato in giro per le carceri e che ho rivisto dopo tanti anni, prima che mi arrestassero, è Paolino, quello che interpretava il ruolo del capo banda. Oggi conduce una vita tranquilla e serena con la sua bella famiglia.
Quando ci penso mi chiedo se il ruolo è finzione, realtà, interpretazione, se te lo scegli o te lo affibbiano… e penso a come è beffarda la vita!