Antonella Cuppari, Alice Ordanini

Intervista sulla sfida


Dott. Luigi Pagano

Direttore della Casa Circondariale di Milano, San Vittore



Senza pensarci troppo, quali immagini Le evoca il termine sfida?
Il termine sfida mi evoca istantaneamente il concetto di superamento di limiti propri e oggettivi.

Quali personaggi della storia, della mitologia, della letteratura, dell'arte, della scienza, dello sport, Le vengono in mente pensando alla sfida?

Da un punto di vista sportivo mi viene in mente Maradona, un calciatore talmente grande che non poteva confrontarsi quasi con niente.
Per quanto riguarda i miti del passato mi vengono in mente eroi classici quali Ulisse, ma anche gli stessi popoli, quali i greci e i romani, che hanno avuto la capacità di assorbire la cultura degli abitanti dei luoghi conquistati e di digerirla.
Per quel che concerne l'arte immediatamente ho l'immagine di Michelangelo, Leonardo da Vinci e delle loro opere.

In campo cinematografico mi viene in mente la scena di un film con Jack Nicholson, "Qualcuno volò sul nido del cuculo", in cui il protagonista cerca di sollevare un lavabo senza riuscirci, anche se almeno ci ha tentato.

Questa immagine mi fa venire in mente una sfida che, nonostante non si riesca a vincere, si configura come un tentativo di cambiare i limiti; questo già rappresenta una vittoria di per sé. La sfida è, infatti, finalizzata a migliorare, a progredire per superare uno status quo.

Può darci qualche aggettivo, qualche definizione per definire una persona che lancia una sfida e una persona che riceve una sfida?
Un aggettivo potrebbe sì identificare il significato del termine sfida, ma secondo me lo limita. Non sono incline a dare aggettivi perché essi rischiano di dare una falsa rappresentazione del termine.

Quali possono essere le cause e le finalità che spingono gli individui a rischiare lanciando delle sfide? Cosa sta alla base di una sfida?
Secondo me, a livello personale, alla base di una sfida può esserci la noia, la frustrazione, lo stare male e il desiderio di stare meglio.
La sfida rappresenta un interesse collettivo per migliorare a tutti i livelli. Esiste sempre una persona che sente la propria condizione come limitante, ma riferirsi unicamente alla sfida individuale è secondo me fuorviante. La "sfida dell'eroe" andrebbe forse lasciata un po' da parte perché va al di là dell'umano. E' forse più reale la sfida di un impiegato e, in quanto tale, andrebbe valorizzata di più di una sfida che accelera e che brucia le tappe. Secondo me è quindi importante un recupero dell' "eroismo del quotidiano".

Possiamo provare a individuare alcune categorie di sfida? Quanti tipi di sfida esistono?
Io credo che le "molle", le motivazioni che muovono i diversi tipi di sfida siano le stesse mentre quello che cambia è il contesto.

Che rapporto c'è tra sfida e narcisismo, sfida e istanze evolutive, sfida e conflitto?
A volte la sfida e il narcisismo possono coincidere perché la società impone spesso questo tipo di modelli.
Accade anche, però, che sia la vita a porre delle sfide e in questo caso è l'evento, la necessità di superare uno status quo che spinge una persona ad "alzarsi dalla sedia" e sfidare. In questo caso l'aspetto narcisistico è del tutto assente.

Cosa rimane ad una persona di una sfida, sia che essa la vinca o la perda?
Di una sfida rimane comunque il fatto di non aver rimpianti o rimorsi per non averci provato. Se la sfida è vincente, allora c'è anche la soddisfazione, mentre se la sfida ha un esito diverso da quello sperato allora bisogna avere il coraggio di ricominciare da capo. Del resto: "Non tutte le sfide riescono col buco".

Quali differenze e quali analogie si possono cogliere fra la sfida di un adolescente e quella di un adulto?
I ragazzi hanno l'entusiasmo di chiedere, di pensare e di agire, mentre l'adulto sembra aver dimenticato le turbolenze dell'anima e le sfide affrontate per adeguarsi al mondo. La persona adulta tende a mortificare gli entusiasmi dell'adolescente, forse per gelosia di qualcosa che lui non ha più. Sembra quasi una sorta di "sindrome del faraone" che desidera che tutto il mondo muoia insieme a lui.

La sfida di una donna è diversa da quella di un uomo?
Secondo me sì, perché la donna ha uno status sociale diverso dall'uomo e perché a causa della sua natura biologica è legata a determinate vicende (gravidanza, maternità…). Si può dire che la donna parte da "qualche metro" di svantaggio ma, nonostante ciò, molte riescono egregiamente a sfidare perché sono più plastiche e si sanno meglio adattare rispetto ad un uomo.

Secondo Lei la nostra società lancia dei messaggi di sfida?
Sì, secondo me la nostra società lancia messaggi di sfida tutti i giorni anche se il cittadino spesso è poco convinto. Siamo in una fase non molto eroica, siamo in un momento quasi "sedato" forse a causa di modelli di vita che riportano alla quiescenza e alla sedentarietà. A questo proposito mi viene in mente un romanzo di Orwell "1984" dove si narra di una società governata da un
"grande fratello" che vedeva tutto e dove regnava una quiescenza totale. Questo personaggio faceva un lavoro sulle coscienze, sulle memorie e sulla storia; lui deteneva il presente e falsificava il passato per avere potere nel futuro.

Secondo Lei affrontare delle sfide nel corso della nostra vita è inevitabile?
Sì, è inevitabile. Io, nonostante sia una persona pigra, mi trovo costretto a sfidare. La sfida al mio paese è, per esempio, uscire di casa per cercarsi un lavoro, è sforzarsi di essere onesti.

Per entrare più nel dettaglio della sua funzione all'interno del carcere, qual è la sua sfida personale quale direttore del carcere di San Vittore?
Il carcere è un luogo chiuso mentre l'uomo è per natura un essere libero; questa è la parte strutturale e fisiologica del carcere che fa male, in quanto costituisce un ambiente innaturale per l'uomo.
Un altro motivo per cui il carcere fa male deriva dalla non applicazione delle leggi all'interno dello stesso.
Anche se questi due aspetti negativi del carcere venissero risolti, esso sarebbe comunque sbagliato perché funzionalmente è così. Se l'obiettivo della pena deve essere il reinserimento, la rieducazione del detenuto, non è possibile che una struttura chiusa, isolata possa funzionare per questo. Per questo scopo è necessario ricreare un "humus", che dia la possibilità di riportare il detenuto fuori; insomma, paradossalmente, bisognerebbe riaprire il carcere per creare le condizioni adeguate per una vita sociale onesta. Ecco che quindi in alternativa al carcere sono più indicati trattamenti di libertà che, oltre a costare meno, punterebbero meglio alla risocializzazione. In questo modo il carcere verrebbe privato della caratteristica di "misura trattamentale" e lo si riporterebbe a quello che realmente rappresenta, cioè una difesa sociale, un momento interdittivo nelle situazioni più pericolose.

Come si possono conciliare i due obiettivi della pena sanciti dalla costituzione (difesa sociale, risocializzazione del reo)?
Non so se la difesa sociale sia un obiettivo che viene raggiunto da una pena di soli 6 mesi; lavorando solo sulla giustizia penale e retributiva si dimentica che il problema riguarda la giustizia distributiva. Non si può soltanto imporre ad un detenuto cosa deve o non deve fare e poi tirarsi indietro e non garantirgli uno spazio in cui dimostrare se è cambiato.
Stando bene a vedere, anche il trattamento ha una funzione di difesa sociale perché depotenzializza. Non è detto che per reinserire, rieducare, bisogna sempre punire, così come non è detto che ogni aspetto pedagogico debba passare per la punizione.
La costituzione parla inoltre di pena e non di carcere; quest'ultimo probabilmente non è adatto per il tipo di pena che la costituzione prevede. Ovviamente il carcere ha una sua utilità: isola chi è sentito come pericoloso, anche se stabilire chi sia o non sia pericoloso può essere arbitrario. Il carcere non è quasi mai un campo neutro e, anzi, finisce quasi sempre con l'essere deleterio.

Ma il carcere è sempre esistito?
Il carcere, inteso nell'accezione moderna, si impone nell'era illuministica in cui le altre pene si erano rivelate eccessivamente cruente e sembravano non servire più. Ecco che allora nasce l'idea di frazionare il tempo che uno deve trascorrere in carcere in base al reato commesso, e nasce la possibilità di far riavvicinare al bene il detenuto. E' solo in questo momento che il carcere viene visto come una pena da scontare e non come un luogo dove il condannato a morte attende di essere giustiziato.
Se il carcere, in quel periodo, è nato da una rivoluzione culturale, ciò non significa che debba essere così per sempre. Sarebbe auspicabile oggi una rivoluzione culturale della portata di quel tempo.

Lei parla di rivoluzione culturale: ci sono però molte persone che si dichiarano favorevoli alla pena di morte. Lei non vede questo fenomeno come un "tornare indietro" verso quelle pene cruente che hanno preceduto il carcere?
No, io non leggo il fenomeno in questo modo. E' importante porre l'accento sulla funzione che una pena ha, bisogna chiedersi se il carcere raggiunge effettivamente quanto si propone. Evidentemente non è così. La pena di morte invece, nella sua tragicità, sì; come "prevenzione speciale" è "ottima", così come lo è l'ergastolo. Il malcontento quindi deriva, secondo me, dal fatto che allo stato attuale il carcere non adempie alla sua funzione; desocializza invece che risocializzare.

Come vive Lei la Sua sfida, se da un lato rappresenta il carcere, in quanto direttore, e dall'altro è consapevole dell'inutilità del medesimo?
La mia sfida è quella di creare le condizioni che permettano al detenuto di scegliere una strada percorribile con sacrifici; queste condizioni, non devono essere legate al trattamento che il carcere prevede, ma devono, per esempio, provenire da un gruppo non istituzionalizzato, qual è, per esempio, il gruppo della trasgressione. Si tratta di una sfida ad una società che crea il carcere, che affida ad esso il compito di isolare il detenuto, laddove invece dovrebbe creare, non solo un cordone di sicurezza, ma imporre in termini di coscienza cosa bisogna e cosa non bisogna fare.

Dentro di me, quindi, c'è l'utopia di sostenere che il carcere non serve per superare quest'impasse, di voler mettere carcere e società muro contro muro per dimostrare come altre misure trattamentali siano, per molti detenuti, più adatte del carcere.