Verbale sul training per "Educazione alla legalità"
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Silvia Casanova |
16-02-2008 |
Il Gruppo ha un importante appuntamento per il giorno 20 febbraio con una scolaresca che entra nell’istituto con il progetto “Educazione alla Legalità”. I temi, possibili piattaforme per l’incontro, sono:
A questo punto il gruppo si concede un piccolo brainstorming per raccogliere idee in vista dell’appuntamento con la scolaresca. Alex: potremmo parlare della formazione dell’identità di cittadino nella relazione con gli altri; qualche tempo fa discutevamo di come violare la regola equivalga a violare la relazione con gli altri. Un tema che a questo si collega è il piacere della responsabilità.
Aparo: è un tema molto opportuno, ma il discorso va organizzato in modo che non cada dall’alto. Noi, un gruppo di persone di cui molte hanno commesso reati, non possiamo avere la pretesa di spiegare agli altri come si diventa cittadini. L’educazione alla legalità è un concetto che deve essere percorso, non dispensato dalla cattedra. Un passaggio importante tra le parole di Alex è questo: si diventa cittadini all’interno delle relazioni e delle funzioni. Dobbiamo quindi evidenziare come fra i membri di una collettività l’esercizio delle funzioni di ciascuno alimenti il senso di appartenenza e il reciproco riconoscimento.
Pasquale: forse bisogna incrociare i concetti di cui parliamo con la propria storia, cioè catturare l’attenzione dei ragazzi attraverso la nostra storia viva per passare loro dei concetti. Mi vengono in mente due figure importanti per me, mio nonno e mio padre: mio nonno aveva l’abitudine e il piacere di raccontarmi e insegnarmi delle cose sulla natura, mi trasmetteva i suoi insegnamenti con passione, rendendomi partecipe di ciò che mi stava dicendo e protagonista di ciò che avremmo fatto insieme; mio padre, invece, mi imponeva l’apprendimento di alcune cose, che io, per il modo che utilizzava nell’insegnarmele, rifiutavo a priori. Il modo con cui mi parlava mio nonno mi è rimasto dentro, ho capito che se mio padre avesse avuto un modo diverso di comunicare con me forse avrei fatto scelte diverse. Per accettare la collettività ci deve essere una relazione che ti faccia sentire partecipe di questa collettività; se c’è l’imposizione, si rischia il rifiuto a priori, a prescindere dalla bontà dei concetti veicolati.
La convivenza sociale, il senso di appartenenza, sottendono l’accettazione di un sistema di norme che regola i rapporti fra persone. Se la relazione è buona, le norme diventano parte di te e tu sei già nella collettività. Se non si riesce ad interiorizzare le norme, si crea una frattura e le scelte personali si slegano dal contesto della relazione per diventare scelte fredde, manchevoli e zoppicanti. Da adolescenti non ci si rende conto di dove può portare una scelta che non tenga conto della relazione e che non sia inquadrata in essa.
Giuseppe: mi viene in mente l’incontro che abbiamo fatto con gli insegnati qualche tempo fa; si era giunti al concetto per cui sapere di essere pensati da qualcuno a 16 anni è una cosa importantissima. Durante l’adolescenza essere apprezzati per le proprie qualità e per ciò che si sa fare è fondamentale per evitare di sentirsi tagliati fuori. Mi viene in mente una storia: due bambini sotto ad un albero di mele stanno litigando; finito il litigio, entrambi hanno sete e decidono di prendere una mela per dissetarsi, così devono salire uno sulle spalle dell’altro per riuscire nel loro intento; senza accorgersi stanno collaborando per il loro benessere. L’interesse da parte di un insegnante è l’interesse per il mio impegno personale, una molla a cui non si può rinunciare quando si è ragazzi; credo che questo sia un punto importantissimo.
Aparo: stiamo parlando di un adulto che ti chiede qualcosa mentre ti pensa e ti cerca.
Giovanni: crescendo, lo spazio delle relazioni si amplia, i punti di riferimento cominciano ad essere cercati anche oltre la famiglia. Spesso gli adolescenti cercano di mettere alla prova gli adulti di riferimento e il nuovo spazio sociale in cui si muovono, cercandone il limite, facendo delle prove, alcune volte anche prove di forza e di potere con l’adulto con cui si confrontano.
Aparo: vuoi dire che a volte l’adolescente provoca per verificare quanto può derogare dai limiti che gli sono stati indicati?
Giovanni: sì, senti che il vecchio mondo degli affetti familiari non è più l’unico mondo, ma il nuovo spazio in cui ti stai avventurando ti fa sentire fragile.
Silvia: sul discorso di Giuseppe e prendendo spunto anche da Giovanni, penso che l’adolescenza sia un momento in cui si acquisiscono delle competenze; l’acquisizione di competenze con la guida di un insegnante o di un adulto di riferimento ti tiene lontano dal desiderio di abusare del tuo potere sugli altri. Mi ricordo che io ero brava nelle materie umanistiche e la mia professoressa di lettere se ne era accorta; lei mi valorizzava, mi gratificava per il mio impegno e per le mie qualità, ad ogni lezione alzava di un gradino il tiro e pretendeva che io fossi sempre pronta. Altre insegnanti lo facevano con le mie amiche, per esempio la prof di matematica aveva intuito che la mia amica era brava nella sua materia. L’occhio attento dei docenti aveva provocato nel mio gruppetto la sensazione di essere una squadra; io avevo un ruolo, le mie amiche altri, ognuna sentiva di avere il suo posto e di voler investire sulla propria competenza perché le competenze di ognuno di noi erano una risorsa per tutti, oltre che un lustro personale.
Alessandra: a 16 anni ho scoperto di essere brava ad imbrogliare; il mio eroe all’epoca era mia cugina, che rappresentava tutto ciò che volevo essere ma non ero. Durante i week end andavo da lei, frequentavamo gente più grande di noi, andavamo a ballare. Al ritorno, in classe, raccontavo l’accaduto, infarcendo di clamorose balle gli eventi vissuti. Mi piaceva essere riconosciuta e stimata dalle mie compagne per quello che raccontavo, ma contemporaneamente sapevo che c’era qualcosa di falso. Con mia madre non sono mai riuscita a bluffare, pur se era proprio lei ad impormi le regole; forse lei mi ha sempre fatto sentire il peso che comporta la falsità.
Antonio: nell’adolescenza c’è un momento in cui hai bisogno di trovare uno spazio nella società perché stai uscendo dalla tua famiglia; cerchi allora dei maestri di vita che ti diano i mezzi e lo spazio per trovarti, realizzarti, acquisire delle competenze. In questo modo riesci a impiegare la tua energia non per spaccare una bottiglia in testa a qualcuno, ma per contribuire con il tuo ruolo e le tue capacità a un obiettivo comune.
Aparo: a questo riguardo cadono a fagiolo proprio gli scritti di Antonio e di Mario, anche se il giorno venti non è opportuno leggerli; li si lascia sul tavolo, chi lo desidera potrà prenderl.
Mario: ho pensato che sul mio scritto “Metà uomo metà done” si potrebbe costruire una sceneggiatura!
Maurizio (un insegnante che partecipa al gruppo per la prima volta): perché questi studenti verranno in carcere? Una cosa è andare al museo, un’altra è andare in carcere! Gli insegnanti si propongono di far vedere le conseguenze di un deragliamento rispetto alle regole, aspettandosi che questo possa avere una funzione preventiva? Mi ricordo che una donna portò sua figlia a vedere il cadavere di una persona tossicodipendente morta, con il fine di fare prevenzione e del tutto in buona fede. E’ questo il progetto? Cosa hanno in mente gli insegnanti?
Sofia: a proposito dell’importanza di sentirsi pensati da chi ti chiede qualcosa. Mio fratello si è fatto bocciare in seconda liceo, è uno stupido ma non del tutto. La sua prof di inglese comunica a mia madre che per quell’anno scolastico non ce l’avrebbe fatta e mia madre reagisce non volendolo più mandare in America con la scuola, per punizione. La prof in questione suggerisce che invece sarebbe stato opportuno mandarcelo e lui parte. Mio fratello era tronfio del fatto che, nonostante la bocciatura, era comunque riuscito ad andare all’estero con il resto della classe, ma dopo pochi giorni si è reso conto che non riusciva a stare dietro ai compagni nelle lezioni. L’insegnante gli propone allora di impiegare il soggiorno negli Stati Uniti per studiare l’inglese con lei, mentre gli altri andavano a spasso. L’anno successivo ebbe 8 in inglese, grazie al fatto dello stage in America e 5 nel resto delle materie; e l’anno dopo, 8 in inglese e 6 nel resto delle materie. Una volta mi disse: “Ho preso 4 in latino, come faccio a dirlo alla prof di inglese?”.
Giuseppe: chi ti vuole fare acquisire qualcosa, quando ci riesci, te lo riconosce, e tu acquisisci per gradi e interiorizzi.
Aparo: rispondiamo alla domanda di Maurizio. Giorni fa Monica, una detenuta del gruppo al femminile, mi ha detto “se raccontare gli errori che ho fatto può essere utile per evitare che i ragazzi seguano la mia strada sono contenta di esserci il giorno 20”. Bene, voglio puntualizzare che il detenuto, in questi incontri, non ha il compito di raccontare il proprio percorso di vita come esempio negativo da non seguire; non è questo il metodo cui fare riferimento. Noi non parliamo dell’esperienza che ha condotto in carcere ma dell’esperienza che si sta facendo con il gruppo nella tessitura delle relazioni e delle esperienze. L’obiettivo è evidenziare il piacere di applicarsi a qualcosa.
Siamo qua in carcere e studiamo Michelangelo e Caravaggio, riflettiamo sul rapporto tra ciò che l’insegnante si attende dall’allievo e l’attenzione che gli deve dare affinché lui s’impegni, ecc… Applicarsi a qualcosa insieme permette che le persone parlino e incrocino le loro differenze, le loro abilità, i loro errori, le loro aspirazioni. Va evidenziato il valore di ciò che si sta facendo, non il disvalore di ciò che si è fatto. Gli errori commessi e le esperienze personali non vanno citati come cronaca di un fallimento, ma per l’arricchimento personale che si ottiene dalla riflessione critica sul proprio percorso; in altre parole, quando parliamo dei nostri errori, non lo facciamo per indicare dove essi conducono, ma per valorizzare ciò che si guadagna riflettendo sulle motivazioni e sulle circostanze dell’errore.
Al gruppo viene proposto di contribuire al progetto di “educazione alla legalità”, ma il nostro contributo consiste nell’interpretare questo progetto come “educazione al piacere”. L’obiettivo di “educare alla legalità” è fondamentale, ma noi non lo coltiviamo invitando al dovere e al sacrificio, pur se la convivenza e la cooperazione sono fatte anche di questo. Il metodo cui il gruppo fa riferimento è la sperimentazione del piacere. Quale piacere?
Con l’attività del gruppo, si sperimenta il piacere di incrociare le nostre personali aspirazioni con i vincoli e le istanze cui siamo chiamati dalla società e dalla Legge e con quello che Stefano Zuffi e Fausto Malcovati raccontano sulla “Cappella Sistina” e su “Delitto e Castigo”.
Dopo avere sperimentato il piacere di sentire raccontare parte di noi stessi dalle immagini di Michelangelo e dai racconti di Dostoevskij si accede, senza che ce ne si accorga e senza peso eccessivo, al piacere della legalità e al piacere della responsabilità. |