Metà uomo, metà done | |
Mario Di Domenico | 22-10-2007 |
Lo scopo di queste parole scritte col pennarello sulle tasche della giacca di lavoro di un detenuto del 3° raggio di San Vittore era quello di ridicolizzare e usare come vittima lo stesso detenuto che la indossava.
Il detenuto, di per sé, aveva delle caratteristiche fisiche predisposte al vittimismo: basso circa un metro e mezzo, fisico molto robusto e passo felpato. Così l’ho visto per la prima volta, quando, dopo avere mangiato, avevo deciso di fare due passi in corridoio. Era insieme ad altri detenuti che ridevano di lui e non mi sarei mai fermato se non mi avesse chiesto una sigaretta.
In carcere le sigarette le fumano tutti ma le comperano in pochi; io sono uno di quelli e, visto che devo fare quadrare il mio bilancio, non posso offrirle a tutti quelli che me le chiedono. Ho deciso così di adottare un sistema di valutazione del richiedente; gli pongo delle domande per capire chi ho di fronte e per decidere se offrirgliela o meno.
Alla richiesta del goffo uomo, il mio sguardo va sulla scritta che aveva sulle tasche e scatta la domanda: “Ma chi te l’ha scritto?”. Lui fa il nome di un ragazzo che non conosco e subito gli dico: “Ma se lavori, perché non ti compri le sigarette?”. E lui scoppia a piangere. Singhiozzando mi dice: “Non ho più nessuno in famiglia, sono tutti morti e l’unica sorella che ho mi ha abbandonato perché è stanca dei miei continui errori; è poco tempo che lavoro e non ho ancora preso lo stipendio”.
E’ bastato un secondo per decidere di dargli l’intero pacchetto. Nello stesso momento mi sono sentito responsabile di dargli una mano e dei consigli affinché riacquistasse la sua dignità e tirasse fuori la sua personalità. “Senti, perché non ti levi questa camicia ridicola e ne metti una senza scritte? Così ti prendono per quello che sei e non per il pagliaccio che fa ridere gli altri”.
Ha smesso immediatamente di piangere. Ferito nell’orgoglio ma lieto del consiglio ricevuto, mi ha detto grazie ed è salito al piano superiore.
Ho pensato subito che avevo fatto un buon investimento. Mi aspettavo un risultato positivo, anche se un altro detenuto che ha seguito la vicenda mi ha detto: “Ci sei cascato, fa così con tutti solo per scroccare le sigarette”. Quelle parole mi hanno fatto male, ma la superficialità della persona che le diceva erano la prova che avevo ragione.
Il giorno dopo vedo passare l’ex vittima con una camicia nuova e pulita. Anche il modo di camminare era cambiato, era più sicuro, deciso e veloce, quasi volesse fare in fretta a recuperare il terreno perduto.
Mi sono auto-responsabilizzato; al momento la mia sfida sembra abbia portato a un buon risultato, ma la cosa più bella è la responsabilità che lui ha dimostrato nei miei confronti, nata da una relazione casuale avvenuta in un corridoio del carcere, dove ti viene tolta la libertà fisica ma non quella di rispondere a noi di noi stessi.