Incontro col prof. Fausto Malcovati
su Delitto e Castigo

Silvia Casanova

11-07-2005

Ospite della riunione: prof. Fausto Malcovati, docente di Letteratura Russa.

Tema del giorno: Dostoevskij e, in particolare, “Delitto e Castigo”.

La riunione comincia con il professor Malcovati che, per introdurre il romanzo, ripercorre preliminarmente la vita dell’autore.

 

1846: Dostoevskij debutta come scrittore contemporaneamente ad altri suoi conterranei, in particolare scrittori di prosa; questo dato è importante perché nella seconda metà dell’800 alcuni gruppi di intellettuali discutono criticamente su ciò che succede in quegli anni in Russia.

Esce “Povera gente”, un romanzo epistolare verso cui i critici radicali si dimostrano entusiasti. Ma l’opera viene in buona parte fraintesa, venendo letta come fosse una questione di sola denuncia sociale del regno di Nicola II. In realtà, la questione sociale non è così in rilievo nel testo; l’intento dell’autore era quello di concentrarsi maggiormente sulle caratteristiche psicologiche dei personaggi e su cosa li spinga ad agire in un determinato modo.

1847: Viene pubblicato “Il sosia”, opera apparentemente di segno diverso dalla precedente: si parla della storia di un uomo scisso tra due parti, che vive la situazione fino a impazzire. I critici ribaltano il giudizio sull’autore. La popolarità di Dostoevskij diminuisce, i critici capiscono che non è uno scrittore di denuncia, ma lui continua a scrivere, non è interessato alla popolarità sociale.

Per 3 anni, dal 1846 al 1849 Dostoevskij continua nell’indagine della psicologia dei suoi personaggi; la questione sociale è lasciata in secondo piano.

Scrive “Le notti bianche”, il racconto di un uomo innamorato sullo sfondo delle lunghissime notti di Giugno, a Mosca.

1849 - Dostoevskij si afferma come scrittore psicologo, ma senza il successo della critica. Nello stesso anno la sua vita cambia di colpo: egli viene arrestato insieme ai suoi compagni appartenenti ad un gruppo di opinione, che svolgeva le sue riunioni a casa del socialista Petrasevskij, composto da critici e letterati. Si tratta di un’operazione poliziesca discutibile (non c’erano prove che il gruppo manifestasse una tendenza rivoluzionaria); vengono accusati di attività sovversiva.

Il regime di Nicola II si mostra sempre più repressivo. In precedenza, nel 1825, c’era stata la Rivolta dei Decabristi, definita l’unica vera rivoluzione del secolo poiché vedeva i nobili e gli intellettuali opporsi al potere dello Zar, accusato di essere un tiranno.

Dostoevskij in carcere scrive la sua difesa, facendo riferimento alle riunioni del suo gruppo e ai contenuti trattati. Ma il processo al gruppo di cui faceva parte Dostoevskij si conclude per tutti con la condanna alla fucilazione.

Anche se all’ultimo minuto il Zar commuta la pena capitale in condanna ai lavori forzati, l’attesa dell’esecuzione rimane impressa per sempre nella vita dell’autore: “L’idiota”, è il racconto dell’ultima ora di un condannato a morte che ripensa alla vita.

Dostoevskij parte per una fortezza siberiana, dove viene messo insieme ai detenuti comuni (i quali erano di solito separati da quelli politici) e in cui la condanna si attua in condizioni di vita estreme:

  • concessa solo la Bibbia e nessuna possibilità di scrivere o leggere altro,
  • catene ai piedi che non vengono tolte per nessuna ragione,
  • unica camerata in cui si dorme per terra,
  • condizioni climatiche di gelo.

L’esperienza carceraria durata 5 anni è dunque spaventosa.

Dostoevskij non rinuncia alla riflessione su tre punti fondamentali:

  1. la sua condanna è ingiusta, poiché senza prove e volutamente estrema;
  2. la spaventosa situazione dei detenuti nel campo di lavori forzati lo fa riflettere sulla detenzione e sulla sua utilità;
  3. il rapporto con i detenuti comuni lo porta ad interrogarsi su che cosa è il delitto e come si sviluppa nel suo iter la violenza fino all’atto finale del crimine.

Nel 1854 viene liberato ma non graziato; i lavori sono trasformati in obbligo di prestare servizio militare da soldato semplice.

Nel 1855 muore Nicola II, la situazione di Dostoevskij migliora.

Gli succede Alessandro II, uno Zar più morbido. Le condizioni generali di vita migliorano, diminuiscono progressivamente la violenza e l’oppressione e ciò si riflette anche in Siberia. Dostoevskij comincia a potere scrivere. Non scrive però subito la sua esperienza di carcerazione.

Da soldato semplice l’autore ha il vantaggio di poter avere rapporti con altre persone, può scrivere, ecc…

Nel 1863-’64 esce “Memorie da una casa di morti”, la storia della detenzione in prima persona; è un romanzo in cui si raccontano episodi di vita del campo di lavoro.

Qui vengono posti esplicitamente due problemi:

  1. a cosa serve la detenzione in un campo di lavori forzati?
  2. cosa spinge l’uomo a compiere il male?

Durante il periodo 1849-1854 Dostoevskij ha potuto constatare personalmente che il lavoro forzato lascia gli uomini ai peggiori istinti e non permette nessuna forma di crescita del detenuto. Il campo di lavoro abbatte ogni desiderio di riscatto del prigioniero, non serve per spingere al rimorso e nemmeno per migliorare il rapporto tra detenuto e società.

L’opera fa scalpore, raramente uno scrittore aveva visto dall’interno la realtà carceraria.

1866 - Due anni dopo esce “Delitto e castigo”, il primo dei due romanzi della maturità.

Il personaggio principale uccide due persone; è la storia delle motivazioni al delitto e di come il personaggio successivamente al fatto si assume le responsabilità del delitto compiuto.

Il delitto si configura come una rottura tra chi lo compie e la comunità in cui esso è compiuto.

Il carcere mantiene questa rottura. Come si può ristabilire il rapporto? Qual è il cammino che spinge un omicida a prendere coscienza del delitto e a ristabilire con la società con cui ha rotto i rapporti  (con il delitto) i legami che aveva?

Le ragioni del delitto, nel romanzo, si sviluppano su due piani:

  1. Il protagonista, Raskolnikov, è uno studente povero che vive di espedienti, vende oggetti ed entra in rapporto con un’usuraia. Vive un senso di ingiustizia sociale per la sua condizione di povertà ed è portato a pensare: uccido perché voglio ristabilire una giustizia all’interno della società in cui vivo. Uccido un essere malvagio come l’usuraia, che approfitta della mia miseria per arricchirsi e ottengo per me la possibilità di migliorare la mia situazione e concludere gli studi e diventare una buona persona. Compiuto il delitto, Raskolnikov è convinto di arrivare ad una situazione sociale migliore rispetto alla precedente.
  1. La convivenza nella società è basata su leggi morali. Chi si rifiuta di seguire le leggi è un criminale o un personaggio che attribuisce a se stesso doti superiori: Napoleone, ad esempio, se non avesse ucciso non sarebbe diventato Napoleone! Il protagonista può uccidere perché si sente un personaggio dalle doti superiori, una persona eccezionale che può superare le leggi morali e uccidere l’usuraia per un progetto di vita più ambizioso.

Il delitto è compiuto nella prima parte del romanzo. E’ eseguito con precisione ma con un imprevisto: il protagonista vuole uccidere l’usuraia parassita e spregevole, ma nel momento dell’assassinio è sorpreso dalla sorella della vittima, una rammendatrice, che viene uccisa perché testimone del delitto. Il delitto quindi assume manifestamente caratteri di ingiustizia; la violenza non si scaglia solo contro l’elemento negativo ma anche contro a un innocente.

E’ un delitto “perfetto” in quanto il protagonista riesce a eliminare ogni prova: i soldi (sotto ad un sasso, mai utilizzati), l’ascia, le macchie. Il delitto per tutto il romanzo resta un delitto impunibile.

La seconda parte del romanzo si apre con la problematica di come convive l’omicida con il proprio crimine. Il romanzo è in fondo la storia di come un criminale non possa vivere con un delitto non "lavorato", di cui non si assume la responsabilità.

 

Due sono le linee narrative:

  1. Il protagonista è solo di fronte al delitto di cui nessuno può incolparlo perché non ci sono prove, ma il rapporto tra il protagonista e il suo delitto diventa sempre più complicato. Nell’anima del protagonista il gesto compiuto lavora: il senso di colpa per avere compiuto un gesto che lo ha isolato è un peso enorme da sopportare. I rapporti di prima sono compromessi, il delitto non rielaborato non gli consente più di ristabilire i rapporti con i compagni di studio, né con altri.

    Avere ucciso è un delitto ma anche un elemento che ha modificato i suoi rapporti sociali: il delitto è una rottura dell’esistere socialmente. L’uomo isolato fa fatica a vivere, l’esistenza diventa altra cosa dopo il delitto. E il protagonista comincia a pensare che il gesto compiuto non conduce agli obiettivi previsti. Egli non riesce più a ristabilire un equilibrio, si rende conto che non è un Napoleone, il gesto non gli ha rivelato il suo essere superiore ma, al contrario, "… gli dimostra che è un pidocchio così come pidocchio era l’usuraia". Il delitto è solo la rottura di un ordine, non porta altra conseguenza se non la distruzione dei rapporti con la comunità. E il protagonista rimane isolato con la sua coscienza di avere violato la legge.
  1. La giustizia lavora per trovare il colpevole. Il giudice delle indagini raccoglie elementi, interroga i debitori dell’usuraia ed è incuriosito dal protagonista in cui trova elementi che non gli tornano, ma senza potere stringere il cerchio attorno a lui.

 

Il discorso di Dostoevskij sulla giustizia è allarmante: la giustizia è incapace di arrivare al colpevole servendosi degli strumenti giuridici. Il giudice si rende conto che il protagonista è il colpevole ma attraverso strumenti psicologici, non giuridici. Il colpevole, da parte sua, anche se non è colpito dalla giustizia, non può allontanarsi dal castigo.

Il parere di Dostoevskij sulla giustizia ne “I fratelli Karamazov”, 1860, è ancora più negativo. Nel corso della storia è compiuto un errore giudiziario: vince chi accetta l’errore della punizione per un delitto non compiuto, perché tutti siamo colpevoli e con la punizione si sconta una parte di colpa che in parte ognuno ha.

La giustizia -dice l'autore- raramente arriva alla verità attraverso strumenti giuridici e fattuali. I pochi elementi che il giudice ha a disposizione sono resi inutili dall’autoaccusa di un imbianchino, il quale vive e pratica l’idea che i membri della comunità non sono mai innocenti di fronte ad un delitto. Chi veramente ha coscienza della collettività non può sottrarsi al senso di colpa che nel delitto coinvolge tutti. Una persona compie la rottura, tutti ne sono responsabili perché ognuno ha autorizzato le condizioni in cui il delitto è stato commesso.

La confessione dell’imbianchino paralizza il giudice che è obbligato a condannarlo pur sapendo che egli non è il colpevole materiale del delitto e a lasciare lontano il protagonista da un diretto coinvolgimento.

Il romanzo riporta un lungo “a tu per tu” tra giudice e Raskolnikov, in cui il giudice elenca le possibilità che rimangono praticabili al protagonista:

  1. la fuga. Situazione praticabile ma che presenta un inconveniente: la colpa lavora nel cuore dell’uomo, vivere con essa può diventare sempre più insostenibile. Il colpevole ha la necessità di ricostruire, prima o poi, un legame con l’altro, deve rientrare nella società ma lo può fare solo dopo essersi assunto di fronte a tutti la responsabilità della colpa.
  2. il suicidio. E’ una possibilità, ma un atto di viltà e il protagonista non sembra essere vile.
  3. l’autodenuncia.”Diventa un simbolo per gli altri, dimostra come ci si ricongiunge con la società, autodenunciati, assumi la responsabilità, lavora per ricostruire il rapporto.”

 

La figura di Sonia

Sonia è un personaggio di mezzo tra il colpevole isolato e la collettività. E’ un personaggio del bene che riesce a convincere il protagonista, indifferente al discorso del giudice, a prendere la via del coraggio.

L’idea del bene di Dostoevskij è che il bene sia legato all’azione. Sonia fa la prostituta per raccogliere soldi per la sua famiglia; nel romanzo è l’elemento che catalizza il bene. Vive ai margini ma è disponibile per gli altri, va incontro a chi soffre, capisce il protagonista ed è l’unica persona a cui egli confessa il delitto. E’ una prostituta simbolo della purezza, un colpo alla morale comune.

Sonia accetta il male come parte della propria esistenza e può così superarlo. Non è legata ad una fede particolare ma ha una grande fede dentro: fa il bene concreto, crede in una vita superiore, in un mondo in cui esista il bene. Cristo è simbolo di una persona che soffre, accetta la sofferenza e fa il bene. Sonia ha un ruolo chiave, pur essendo anche lei nel male, ai margini, può compiere il bene ed essere nel bene. Vive in positivo, è inserita in una collettività che può essere considerata simile a quella della chiesa.

La vittima innocente dell’omicidio, sorella dell’usuraia, era una sua amica. Sonia riconduce il protagonista a quel bene in cui lei crede come unico mezzo che permette la solidarietà nella collettività, chiedendo un gesto a Raskolnikov: dichiarare la propria colpevolezza, chiedere perdono alla terra baciandola, confessare poi al giudice (ultimo atto burocratico) la responsabilità del duplice omicidio. Prende la croce dell’amica uccisa e la scambia col protagonista: l’accettazione della reciproca sofferenza è un mezzo per ricostruire il legame con la collettività.

Sonia dunque è il ponte tra due parti che non possono dialogare dal momento del crimine. Non c’è un personaggio "buono”, Sonia ha il pregio di essere passata attraverso il male senza averlo praticato, è il "non colpevole” che però conosce la colpa, che segue il colpevole perché possano evolversi insieme.

 

Qual è il castigo?

Il professor Fausto Malcovati, prima di lasciare la parola ai membri del gruppo, ribadisce che secondo Dostoevskij il castigo proficuo per il colpevole non è quello dato dalla giustizia, gli anni di lavori forzati, ma l'assumersi la responsabilità del reato e assumersi la sofferenza che il reato comporta, perché solo così il personaggio può procedere in una dimensione nuova.

I personaggi di mezzo sono anelli di congiunzione, persone che hanno conosciuto il male pur non avendolo compiuto. Il non colpevole segue chi ha la colpa per aiutarlo nel suo cammino di assunzione di responsabilità e di ricongiungimento con la collettività. L’innocente che conosce la colpa cammina insieme al colpevole e ciò porta all’evoluzione di entrambi.

Seguono domande, chiarimenti, riflessioni del gruppo.

Cristian: perché si dovrebbe prendere in considerazione il suicidio come risposta al delitto? Non trovo giusto che il colpevole si tolga la vita; deve aiutare gli altri a capire come si può arrivare a un gesto del genere.

Danilo: il senso di colpa da dove parte? Forse dall’innocente… e se non l’avesse uccisa?

Malcovati: il problema non è distinguere l’innocente dal colpevole; sono due persone, che il protagonista non aveva diritto di uccidere. Il senso di colpa deve svilupparsi nei confronti di entrambe le vittime perché sono entrambe due esseri umani. Nel romanzo prima c’è la distinzione parassita (usuraia) / innocente (rammendatrice), poi si perde questo confine per riconoscere ad entrambe la rispettiva umanità.

Marta: si interroga su tre punti:

  1. la necessità di rientrare in rapporto con gli altri,
  2. vivere con il fantasma del proprio gesto non dà spazio agli altri,
  3. l’innocente che comunica con il colpevole si evolve con il colpevole?

Malcovati: Certamente. Il bene deve passare dall’esperienza del male, (rif. anche ne “L’idiota”) altrimenti non evolve perché non partecipa alla collettività. E’ l’essere solidale il concetto centrale (vedi P. Bertagna).

Dimitar: l'isolamento dei criminali contribuisce a una tendenza già presente in chi delinque: autoisolarsi dalle relazioni; ma c’è bisogno di relazioni positive per recuperare la fiducia di essere capaci di poter contribuire alla società.

Massimo: ho rivissuto tutte e tre le possibilità che si presentano al protagonista dopo il delitto; pensavo anch’io al suicidio, ma ora che ho assunto la responsabilità delle motivazioni di ciò che ho fatto, questo mi dà modo di vivere positivamente con il senso di colpa. Provi un senso di ingiustizia, di rivendicazione, è una scelta di rabbia arrivare a un gesto simile. Ho sentito che mi stavo muovendo da questa posizione quando ho preso contatto con me e con gli altri.       

Malcovati: “Non la vecchia ho ucciso ma me stesso”. Il gesto si configura prima di tutto in uno scenario interno. La detenzione per questo non serve se non è accompagnata da un cammino di riscoperta di sé; la macchina del carcere  ti prende, sei tu che devi mettere in moto qualcosa dentro, altrimenti inevitabilmente ti senti schiacciato ancora di più.

Armando: il delitto si commette per mantenere una continuità con la propria autostima, i propri sogni.

Malcovati: Dostoevskij è uno scrittore molto legato alla realtà; il personaggio compie il delitto perché vorrebbe sostituire la propria legge a quella del “non uccidere”. Il movente è la presunzione; rompo gli schemi perché ho più diritto degli altri di farlo. Ma quando si rompe un patto ci si isola automaticamente e ci si conduce lentamente alla disperazione.

Aparo: poiché non si può non tenere conto dei sentimenti umani (rabbia, presunzione) occorre promuovere delle situazioni in cui questi sentimenti possano essere elaborati.

Enzo: Dostoevskij parla di “stato febbrile”, io preferisco chiamarlo senso di onnipotenza!

Livia: Molti punti trattati dall’autore vengono trattati anche dal gruppo; la rottura non avviene esclusivamente con il reato, il desiderio di costruire e di distruggere è di tutti.

Malcovati: la situazione sociale è diversa oggi da quella del tempo di Dostoevskij, ma i giuristi esaminano ancora i suoi testi perché il disagio che viene dal carcere è ancora attuale.

 

Serve allo scopo?

Walter: il senso di colpa può spingere l’uomo verso gli altri ma anche a ritirarsi dentro di sé.

Leonardo: il nome del protagonista significa "scissione".

Francesca: la molla economica sembra attuale, ma non si ha la consapevolezza che le molle sono sempre psicologiche.

Malcovati: Freud ha dedicato un saggio a Dostoevskij. Il romanzo gira attorno alle fantasie di risarcimento e onnipotenza; prima porta le ragioni economiche in primo piano, poi nel corso del romanzo l’autore fa emergere la dimensione psicologica come unica molla al delitto.

Mirella: chi compie il gesto malvagio porta dentro di sé una spaccatura che è ancora più terrificante di quella che il gesto rivela. Massacrando gli altri si massacra un io che desidera compiutezza. C’è la necessità di accompagnare chi deraglia nella ricerca dell’unità di sé che è la via per ricongiungersi con il mondo. Da soli o ci si dispera o non si guarda la realtà.

Giampietro: come si conciliano le due componenti di responsabilità individuale e sociale?

Malcovati: ci sono in gioco più che altro due categorie: i trasgressori che devono assumersi la responsabilità e la società che sono i lettori, condotti all’assunzione della propria responsabilità.

Walter: sento due aspetti che devono essere messi in comunicazione: la cornice delle leggi morali e la spaccatura che il detenuto porta al suo interno.

Malcovati: L’autore dà un consiglio a tal proposito: dice di stare attenti a farci da soli giustizia  perché c’è sempre una situazione in cui si subisce violenza ma non per questo si deve/può agire alla stessa stregua. Se accetto di invischiarmi reagendo violentemente contribuisco a mantenere un sistema di comportamenti negativi; se avallo la violenza è poi contro di me che la muovo. La forza sta nel reagire in un modo diverso all’offesa.

Enzo: in questo senso il solo “pagare” per i debiti commessi non serve a crescere.

Pasquale: la figura di Sonia che svela un inganno linguistico e concettuale: FA la prostituta ma non lo è dentro di sé; la nostra società tende alla personificazione delle azioni, il sistema linguistico per cui di una persona si dice che "è prostituta" rivela un sistema concettuale che svia e inganna.