| Verbale Gruppo Trsg 05-12-2005 |
In previsione del convegno del 15 dicembre con studenti e docenti della Facoltà di Giurisprudenza, nel quale si rifletterà sul rapporto dell’individuo con l’autorità e si cercherà di identificare gli elementi che possono ostacolare o favorire un rapporto positivo con le norme, il gruppo ha prima raccolto le prime immagini che rappresentano l’autorità per i presenti.
A partire dalle immagini, abbiamo cercato di procedere a ritroso per verificare a quale punto del percorso individuale l’autorità diventa in molti casi espressione dell’autoritarismo piuttosto che dell’autorevolezza.
L’ipotesi da cui siamo partiti è che, a seconda delle connotazioni dell’immagine interna dell’autorità, il rapporto con se stessi, con la vita e con gli altri cambia significativamente: se una persona percepisce l’autorità come abusante, si sentirà autorizzata ad abusare del proprio potere sugli altri, viceversa, se l’autorità è soggettivamente percepita come propositiva, il rapporto potrà più facilmente diventare di collaborazione.
Dalla discussione è emerso che ci sono due modi prevalenti di pensare e percepire l’autorità:
- l’autorità che decide in modo più o meno arbitrario, un’autorità rivolta al potere, che compie soprusi e appropriazioni indebite, un’autorità che urla e sta lontana;
- l’autorità che promuove l’organizzazione dell’esperienza in funzione di un obiettivo dichiarato e condiviso; un’autorità che fa da guida, che dà sostegno e garanzia, un’autorità che pensa e si espone.
Due sono le domande che ci siamo posti:
- Quali sono le esperienze che fanno sì che il termine autorità assuma i tratti dell’autoritarismo piuttosto che dell’autorevolezza?
- Quali conseguenze ne possono discendere?
Più di una persona fa notare che l’autorità è anche interna e a volte l’autorità interna può essere più spietata e intransigente di quella esterna. Interna o esterna, è stato ribadito, l’autorità può assumere colorazioni più o meno rassicuranti che portano a interpretare se stessi in modo più o meno costruttivo.
Ci siamo chiesti dunque quali siano le funzioni dell’autorità e quali siano le responsabilità di ognuno nel contribuire a che il giudice sia facilitato nello svolgere al meglio il suo lavoro.
Riportiamo i punti principali emersi:
- il mandato del giudice è decidere che tipo di pena comminare in funzione del reato commesso e ciò corrisponde a quanto si aspettano i liberi cittadini. La funzione del giudice, tendenzialmente, non prevede che questi debba chiedersi quali strumenti occorrano al detenuto per non tornare a commettere reati una volta espiata la pena. D’altra parte, se obiettivo della Legge è che il condannato possa sentirsi parte di un progetto che prevede come obiettivo la sua crescita, il giudice non può trascurare che, per chi ha commesso dei reati, la funzione di sostegno e di orientamento, è importante almeno quanto quella di rispondere con punizioni proporzionali al male commesso;
- con il reato, il delinquente fa pagare a qualcuno che non conosce il senso di afflizione e di dolore provati in un altro tempo in relazione ad altre figure; quando compie una rapina egli non riconosce l’uomo che ha davanti; né il cittadino ha facilità a riconoscere un uomo suo simile nel reo, a causa del suo comportamento violento;
- perché ci sia evoluzione occorre alimentare una relazione fra cittadino comune e reo che motivi a riconoscersi rispettivamente come membri della stessa collettività; a tale scopo può essere strumento adeguato un lavoro da portare avanti in comune.