La tirannia della perfezione
sull'incontro del 13-10-2003

Redazione

20-10-2003  

In questo periodo il gruppo sta riflettendo attorno ad un sentimento comune, il rancore, con il consueto obiettivo di far diventare anche questo un motivo di scambio dentro e fuori le mura.

Oggi abbiamo visto come il naturale sentimento di gelosia verso un fratello possa trasformarsi in una forma di rancore, se la persona che lo prova si sente tiranneggiata dall’immagine della perfezione che identifica in lui.

La gelosia può essere provata nei confronti di un fratello più piccolo, di cui gli adulti tessono solo le lodi, magari perché, agli occhi degli altri, il bambino ha la perfezione di chi non ha ancora avuto il tempo di sbagliare; ma anche verso un fratello più grande, orgoglio dei genitori, che eccelle in un determinato campo, mentre il più piccolo non ha avuto ancora il tempo di impegnarsi abbastanza per raggiungere certi risultati.

In entrambi i casi, si può perdere di vista che il fratello col quale si viene confrontati ha le sue difficoltà e si può correre il rischio di vedere in lui solo quella perfezione a cui aspiriamo.

Ma l’immagine della perfezione che il fratello incarna può diventare tirannica se impone continuamente un confronto nel quale risultiamo in partenza perdenti, fino a condurre all’immobilismo se non riusciamo a tollerare i nostri margini di imperfezione. E il fratello in questione, suo malgrado, diventa bersaglio di sentimenti ostili. Risulta difficile esprimersi liberamente avendo davanti l’immagine del fratello perfetto; la nostra imperfezione, invece che uno stimolo a migliorarsi, può diventare un recinto che ci opprime, ostacolando la fiducia in noi stessi e l’impiego fattivo delle nostre risorse.

Anche un padre famoso per i suoi meriti o un professionista molto affermato può farti sentire schiacciato, la loro fama può diventare per i figli quell’immagine di perfezione tirannica, che è nemica del piacere di migliorarsi.

Altre volte il rancore può svilupparsi, in forme più o meno intense e invalidanti, quando i genitori non possono adeguatamente sostenere i figli nel loro processo di crescita, quando li ostacolano o, nei casi estremi, quando li schiavizzano e li sottomettono.

Si può provare una rabbia furibonda verso il padre che abusa del suo potere quando i figli non hanno possibilità di difendersi; d’altra parte si ha bisogno di un genitore buono a cui fare riferimento e allora, come è stato evidenziato in un incontro precedente, ci si può sentire costretti a dividere l’immagine cattiva dall’immagine buona dei genitori e a proiettarle su altre figure allo scopo di conservare un proprio equilibrio.

Questo processo di separazione e proiezione, però, lascia il soggetto in uno stato di precarietà permanente: egli, da un lato, non si sentirà mai protetto a sufficienza dal genitore buono, dall’altro, necessiterà continuamente di trovare oggetti esterni verso cui orientare i propri sentimenti ostili, per salvaguardare i propri genitori buoni dai suoi stessi attacchi.

A volte il rancore rimane a livello inconscio; lo si può covare per anni senza riuscire a dare un nome alla sofferenza che silenziosamente logora; altre volte lo si può trasferire su bersagli esterni (vedi, ad esempio, il fenomeno del razzismo) rimettendo in scena il modello di relazione vissuto con i genitori, questa volta, però, nel ruolo di parte attiva che determina gli eventi.

Il bambino modella la forma delle relazioni e dei sentimenti verso il prossimo partendo dal calco che ha ottenuto interagendo con i genitori; i sentimenti negativi che sviluppa verso di loro nei primi anni diventano un modello di relazione anche nei rapporti con altre persone.

Il rancore, però, può anche divenire un primo mattone per comunicare se si viene stimolati a riflettere attorno ad esso. Quando le parti in gioco cercano di superarlo, il lavoro congiunto sull’ostacolo che divide porterà ad una esperienza di avvicinamento e di costruzione, anche se il risultato non giunge subito dopo il primo sforzo. L’esperienza della riapertura della comunicazione con le parti esterne e interne ostili, tendenzialmente, permette alla immagine interna del genitore buono di riprendere a svolgere la sua funzione di orientamento e protezione al servizio della crescita, e a quella del genitore abusante di venire bonificata.

Molti film si giocano su questa dinamica: due personaggi, inizialmente ostili ma costretti a stare insieme per superare una difficoltà, giungono a riconoscere i rispettivi meriti nel superamento dell’ostacolo e a riconoscere, ciascuno nell’altro, parti di sé.