Ognuno ha il suo tempo | |
Enzo Martino | 18-10-2003 |
Il mio rancore è iniziato già quando avevo circa dieci anni. Oggi capisco che quello che allora provavo si chiama, appunto, rancore. I miei genitori erano contadini; noi, se così si può dire, eravamo ai margini della società civile.
Quando ero piccolo indirizzavo tutte le colpe su alcune persone che identificavo culturalmente più preparate di mio padre; oggi per quelle persone provo un poco di invidia, ma capisco che non avevano colpa se avevano avuto migliori opportunità di me.
Ero arrabbiato con mio padre perché, per colpa sua (allora ragionavo così), noi figli non eravamo presi in considerazione neanche dagli altri bambini. Il non avere le condizioni economiche adeguate, la mancanza di cultura, per me, e credo per i miei fratelli, era un muro invalicabile, anche se invisibile. Mi sentivo sempre fuori posto; tutta l’infanzia l’ho vissuta con rabbia. Tante volte provavo della rabbia verso me stesso.
All’epoca, il mio rancore cresceva al pari della mia età. Cresceva in me l’idea che dovevo fare qualcosa per tirarmi fuori da quella situazione che diventava sempre più insostenibile. Ciò che ho vissuto da bambino mi ha portato a diffidare di tutti. Ricordo che un giorno (i miei genitori coltivavano la terra per conto terzi) il padrone del terreno e della casa colonica dove abitavamo ha chiesto tramite avvocati di andarcene dalla sua terra. Da quel giorno ho potuto indirizzare il mio rancore verso un obiettivo ben preciso.
Da allora ho imparato a non manifestare mai quel sentimento e a tenerlo in me, facendolo diventare una stampella alla quale appoggiarmi. Ho costruito una nicchia nella mia mente per avere la forza di andare avanti. Ho usato la rabbia per superare la sofferenza che vivo tutti i giorni dentro il carcere. Ma questo mi ha portato ad avere alcune volte il disprezzo della mia vita. Alle volte penso a quanto ho sbagliato nel mio comportamento verso gli altri, solo per il risentimento che avevo dentro.
Quel sentimento, ho capito adesso, è stato un tiranno invisibile. Gestire il rancore è molto difficile; ci ho provato, ma tante volte sono stato sconfitto. Bisogna ammettere che confrontarsi con le persone per le quali provi quel sentimento è molto difficile. Oggi sono in carcere e credo, anzi affermo, che se avessi potuto, avrei scelto di vivere senza rancore. L’età, la sofferenza del carcere e il confronto con i miei figli hanno accresciuto in me la consapevolezza che riconoscere e superare il rancore aiuta a vivere meglio e che è molto importante non indurre gli altri a provarne.
Qualcosa è cambiato con la nascita dei miei figli; ho avuto paura sin dal primo momento della loro nascita, ho cercato dentro di me il modo migliore per evitare che loro vivessero il mio disagio passato. Peccato che cercando di far ciò, ho combinato altri guai, forse anche peggiori per il loro futuro.
Non penso che tutto sia perso, perché dal carcere, invio ai miei figli dei messaggi positivi; cerco il più possibile di evitare che loro provino del rancore. Il ragionare insieme ci avvicina e, pian piano, permette loro di superare la rabbia che sicuramente hanno dentro per il fatto che siamo lontani.
Chi è genitore, ha delle responsabilità ben precise; io, quando potevo esercitarle, le ho disattese quasi tutte. Oggi sono detenuto e non è facile mantenere ed esercitare le funzioni di padre nelle ristrettezze che il carcere comporta e che, mi pare, amministra con troppo zelo.
Ho imparato che la vita ha dei confini, ogni persona ha il suo spazio e il suo tempo e in ogni momento può fare qualcosa. Se, nonostante le ridotte opportunità che ho, riesco a instillare nei miei figli la parte migliore che è in me, questo, alla fine, sarà un guadagno per loro, per me e per la società che li dovrà accogliere in futuro.
Ognuno ha il suo tempo per fare qualcosa.