La corazza di Giulio |
Angelo Aparo | 24-07-2009 | Video: La Corazza - il Gruppo Trsg |
Nel 1979 giungo a San Vittore con i primi esperti ex art. 80. Difficile orientarsi, né ci sono psicologi più anziani cui chiedere indicazioni. A farmi da guida nel primo periodo sono i colloqui con i detenuti e le riunioni d’equipe. Scopo degli incontri è rendere tangibili gli obiettivi cui tende la pena, cioè dei piani di trattamento finalizzati alla rieducazione del condannato, al recupero di un’attitudine (forse smarrita, forse mai avuta) a interagire costruttivamente con la società.
Ma mancano le premesse indispensabili perché la comunicazione col detenuto possa puntare autenticamente agli obiettivi suddetti: questi non sceglie il colloquio di sua iniziativa, lo accetta solo perché necessario a che venga formulata un’ipotesi di trattamento. Egli tende perciò a presentare se stesso come un soggetto che non ha alcun bisogno di diventare altro rispetto a quello che è già. All’autorità e agli esaminatori (educatori, psicologi) egli cerca di presentare il volto di un cittadino già maturo per i benefici di legge previsti; ai compagni di detenzione, il volto del duro. In entrambi i casi, una maschera che ne ostacola l’evoluzione personale: ci si può riconoscere incompiuti e insicuri solo di fronte a chi identifichiamo come supporto al nostro compimento; è difficile farlo con coloro che, proprio per la nostra incompiutezza, potranno giudicarci inadatti allo scopo o facile preda.
In queste condizioni le insicurezze, se affiorano, allagano la mente. Molto meglio tenerle chiuse a chiave! In carcere (e non può stupire) si preferisce soffocare dentro un’identità posticcia piuttosto che aprire le finestre sulla propria fragilità. Tante volte, inoltre, chi sconta lunghe pene viene raggiunto e messo con le spalle al muro dai suoi fallimenti affettivi: i figli che si sentono traditi, gli abbandoni. Difficile fare i conti con se stessi e rimanere in piedi.
Quanto più mortificanti sono le condizioni in cui il detenuto vive, tanto più egli vagheggia la sua vecchia corazza affettiva come l’unica difesa capace di garantirgli una parvenza di salvezza. Dentro la cella la corazza brilla come la mela che sedusse Adamo. Vorrebbe saperne fare a meno il detenuto e di certo nuoce alla società; ma se la si toglie, dilaga il senso del fallimento e dell’impotenza.
Oggi va un po’ meglio. Dagli anni ‘80 l’apertura del carcere al mondo esterno è in continuo aumento. Crescono le attività espressive che permettono di esplorare e di allargare gli spazi mentali e affettivi del detenuto. In molti istituti sono oggi presenti numerosi corsi professionali, corsi scolastici, corsi di pittura, di teatro, di poesia. Il muro personale che il detenuto contrapponeva alle mura dell’istituzione per difendere un’identità cristallizzata, oggi, grazie a mille iniziative, comincia a cadere.
Il mio contributo specifico in tal senso ha preso forma nel 1997, quando con una ventina di detenuti di San Vittore viene fondato il Gruppo della Trasgressione. Fra i tanti obiettivi di allora, il primo era potere interrogare la propria storia senza accontentarsi di risposte scontate o che dovessero servire per le sintesi dell’equipe.
Sono trascorsi 12 anni. Oggi il gruppo è composto da detenuti delle carceri milanesi di San Vittore, Opera e Bollate e da comuni cittadini, soprattutto studenti universitari. Da una decina d’anni esiste www.trasgressione.net, il sito dove il gruppo raccoglie i suoi scritti e propone i temi trattati al confronto con il mondo esterno. Eccone uno che rimane in tema.
La corazza, di Giulio Martino
Eccomi qua, con la mia corazza addosso
che appesantisce il mio cammino.
Dentro questa corazza le emozioni soffocano
sotto il peso dell’odio e del rancore.
È stato molto difficile indossarla.
In passato mi ha permesso di sopravvivere.
Oggi è difficile staccarla di dosso.
Vorrei essere aiutato a farlo.
Non è facile per me, non è facile per gli altri.
Qui e là vengono avviati oggi tanti progetti per favorire lo scambio e la collaborazione fra ristretti e mondo esterno, anche se mi sembra che, in linea di massima, il detenuto rimanga ancora un po’ troppo una persona che procede sotto la guida altrui. Io credo che il condannato, per diventare il cittadino che la Legge auspica, abbia bisogno di essere e di sentirsi un adulto che progetta, collabora e si confronta con altri adulti, che gode e soffre con i partner esterni dei risultati e dei fallimenti comuni.
Se questo non accade, nella migliore delle ipotesi, egli si sentirà come il bambino per il quale è stato fatto un programma, ma che dal programma stesso può prendere le distanze appena svoltato l’angolo. Sappiamo che, in definitiva, le cose che amiamo maggiormente sono quelle che concepiamo e nutriamo con la nostra fantasia e per le quali spendiamo il nostro sudore. Tante volte non occorre nemmeno che siano economicamente redditizie; è indispensabile però che la persona vi si riconosca, vi scopra parti stimabili di sé, vi raccolga la gratificazione che discende dalla espressione di parti dimenticate di sé e dal sentirsi riconosciuti dalle persone con le quali si è progettato insieme.