Livia Nascimben | 14-03-2005 |
L’incontro con gli studenti di Giurisprudenza inizia con un giro di interventi su quali siano le aspettative di ognuno; principalmente, il desiderio di alimentare la conoscenza reciproca, di capire come i detenuti vivono la condizione detentiva, di conoscere come lavora il gruppo. L’obiettivo dell’incontro si concentra su un confronto sul senso della pena e su come viene percepita da chi sta dentro e chi sta fuori le mura.
Stefania: Mi interessa sapere qual è la percezione della pena da parte del detenuto per vedere se la pena, oggi, è utile davvero.
Eric: Il gruppo lavora sulle prigioni interiori di ognuno, l’interazione porta a riconoscere problemi comuni, dentro e fuori dal carcere. L’aspirazione è di uscire dall’isolamento per non vivere aggrappati alle proprie idee; cercare la condivisione dà risultati positivi. Nel carcere si trovano diverse condizioni, diverse opinioni, diversi tipi di carcerazione; il modo di porsi con se stessi e con gli altri è diverso se stai chiuso in cella tutto il giorno o se hai la fortuna di svolgere delle attività come la nostra.
Armando: In questo periodo stiamo lavorando al tema della punizione e del rancore, potremmo parlarne insieme.
Domenico: Mi piacerebbe parlare delle finalità della rieducazione; per me la pena dovrebbe avere la funzione di riattivare le risorse della persona che ha commesso un reato per consentirle di spenderle nella società.
Stefania: Vorrei scoprire se c’è e qual è il confine fra me, libera cittadina, e lui, detenuto a San Vittore.
Marcello: Vivo il carcere come abuso, ho difficoltà a scendere a compromessi con l’autorità. Di fronte all’autorità spesso mi sento impotente, non riesco ad esprimere ciò che sono, mi arrabbio e faccio danni. A me piacerebbe sapere come reagite voi al senso di impotenza per imparare qualcosa che mi sia utile perché, nonostante i miei buoni propositi, faccio spesso casini. Domani sarò fuori ma ancora in prigione se non evolvo, nella vita ci sono compromessi ovunque, non solo in carcere.
Danilo: Perché una pena funzioni credo occorra maggiore interesse per chi viene punito, si tende troppo a generalizzare.
Cosimo: La pena in carcere ha somiglianze con la pena di chi sta fuori ed è una persona sofferente.
Domenico: Secondo me bisogna partire dal tentativo di comprendere il senso del reato, sotto c’è sempre qualcosa di conflittuale da indagare.
Georgiev: Non ci si può rieducare da soli, è necessario che vi sia qualcuno che punisca e assuma poi una funzione educativa.
Cinzia: La pena dovrebbe essere un deterrente. Inoltre, se una regola la fai tua e te ne senti parte allora la rispetti. La pena non può essere la stessa per tutti.
Eric: Alla riunione con gli scout abbiamo sottolineato l’importanza della relazione affettiva tra punito e punitore, elemento determinante affinché una punizione sia percepita in modo positivo o negativo. Mentre vivi la punizione non senti che questa serve, è difficile essere equilibrato in quel momento. E’ utile che chi ti punisce ti accompagni nel cammino verso una maggiore consapevolezza di te stesso, di cosa dentro di te non ha funzionato e ti ha portato al reato. Ma se vivi in un luogo che ti schiaccia, dove non hai modo di muovere il tuo corpo né di ragionare sui tuoi errori e sul perché non sei stato capace di seguire le tue prime aspirazioni, è facile che aumenti la rabbia verso chi ti ha punito. Secondo me, i presupposti di una pena, perché funzioni, sono una condizione di vita accettabile e attività con persone esterne che portano la vita, per cominciare la rieducazione all’esterno e riaprire la comunicazione interrotta.
Massimo: Credo sia fondamentale un confronto tra punito e punitore affinché la punizione serva.
Stefania: Il reato è compiuto perché spesso non sai come altro comportarti. La pena ti fa vedere l’altra faccia della medaglia. Non sempre la gravità del reato è comprensibile altrimenti; ad esempio, non sempre chi spaccia coglie la gravità del gesto.
Armando: La pena può diventare un tempo utile per riflettere.
Franco: E’ necessario capire il perché di una punizione, la pena non è un deterrente, se nella vita hai preso tanti calci nel sedere, non ti interessa di prenderne uno in più o in meno. A Marcello voglio dire che il compromesso non è una debolezza.
Tirelli: La pena dovrebbe mirare a fare ritrovare al detenuto il senso di appartenenza al gruppo sociale.
Cosimo: Si invoca spesso l’utilità della cultura, ma quale cultura è necessaria per evolvere?
Enzo: E’ difficile parlare di pena se sei detenuto. Al gruppo abbiamo più volte sottolineato che l’obiettivo della pena è l’evoluzione della persona, più che una sua rieducazione. E’ difficile aspettarsi qualcosa da qualcuno che non ammiri, ma se non cambi la visione negativa che hai dell’autorità, ti rimane nella mente di avere ricevuto una punizione sbagliata.
Aparo: Alla pena, nel corso della storia, sono state attribuite diverse funzioni:
funzione deterrente: ma la minaccia può servire solo a coloro che in carcere non ci sono ancora stati; in ogni caso, la realtà dimostra che questa funzione è efficace solo per un numero molto limitato di persone;
funzione afflittiva: la sofferenza inflitta con la pena dovrebbe avere lo scopo di “restituire” una sofferenza che a quella violazione corrisponde, ma è difficile comprendere l’utilità di una pena così posta, sia per la persona punita che per la società.
funzione propositiva: la pena, in teoria, mira al recupero delle qualità umane e sociali del condannato, ma per essere autenticamente di stimolo come dovrebbe essere vissuta? Come dovrebbe articolarsi?
La persona, commettendo un reato, si autorizza ad un atto di narcisismo con cui trascura le conseguenze che causerà a chi è dall’altra parte. Che rapporto ha il reato con le piccole trasgressioni quotidiane, ad esempio abbuffate ripetute di melanzane alla parmigiana o con ciò che vive chi si dispensa dai suoi doveri di cittadino?
Ogni individuo nasce con la voglia di essere proprietario delle cose che lo circondano, di appartenere al gruppo sociale di riferimento. Ma se le circostanze sono tali per cui una persona non si sente proprietaria della realtà che sta vivendo, se non sente di poterne definire le regole, allora vivrà le regole come limiti da trasgredire.
La pena ha per obiettivo la promozione dell’evoluzione di un individuo e non può trascurare l’importanza del senso di appartenenza al proprio contesto sociale; in carcere è difficile vivere il senso di appartenenza. Il gruppo coltiva il piacere di utilizzare pezzi di realtà e metterli in collegamento tra loro per alimentare l’intesa su obiettivi comuni. Gli studenti di giurisprudenza sono parte della realtà di cui sentirsi proprietari; in questo momento, la proprietà dei detenuti del gruppo è quella di poter comunicare con gli studenti presenti.
Massimo: Mi chiedo se il senso di colpa non sia già una punizione.
Alessandra: Sento forte la responsabilità di questo incontro, come cittadino e studente di Giurisprudenza; partecipare dà senso a ciò che faccio. Se non mi approprio di questa realtà, come farò a non avere pregiudizi verso te che sei detenuto? Se ogni cittadino si mettesse in gioco credo che la pena diventerebbe positiva.
Armando: La punizione ha senso se è accompagnata da un lavoro.
Walter: La paura mi impedisce di vedere gli altri come figure che servono a raggiungere il piacere.
Stefania: Spesso si è intolleranti; la condivisione dei valori è importante per la libertà di ognuno.
Domenico: La pena dovrebbe essere utile anche per rielaborare il senso di colpa, per liberarsene.
Massimo: Il senso di colpa per avere tolto una vita me lo porterò sempre dentro. Partecipo al gruppo sentendomene parte, posso lavorare sul mio senso di colpa e renderlo propositivo.
Livia: Mi è venuto in mente uno scritto di Walter, La laurea. Water parla dell’importanza di avere un obiettivo da raggiungere per non perdersi per la strada; come dice Walter nel suo scritto, vedersi nel futuro e non sentirsi nullatenenti è di stimolo alla costruzione e collaborazione. Volevo poi riportare un intervento di Enzo fatto all’incontro con gli scout, sempre in tema di punizione: al momento della punizione la relazione tra punito e punitore sembra interrompersi ma nella mente di chi viene punito la relazione rimane segnata negativamente, col rischio di trovarsi a dialogare, anziché con una persona reale, con il fantasma di colui che ti ha punito e che hai sentito ingiusto.
Eric: L’esperienza di oggi aiuta noi detenuti a non essere furiosi per il nostro isolamento; è bello scambiarsi punti di vista, dialogare nonostante qualcuno abbia sbagliato e altri no. Questa sera avrò di meglio da fare che non guardare la televisione: posso riflettere su quanto sta emergendo dall’incontro.
Sono uscito e rientrato dalla galera più volte, vivevo ogni volta un senso di ingiustizia, sapevo perché venivo punito e fermato nei miei reati, ma se i motivi che ti hanno portato in carcere ogni volta li ritrovi fuori, se una crescita umana non avviene, quando esci è difficile avere un senso di giustizia interiore.
Spesso la pena è vissuta come abuso; la funzione dell’agente si riduce a tenere a freno la rabbia di noi detenuti, l’agente non ha studi sufficienti per stare con te, e se vivi un sopruso poi ti rimane marchiato addosso. Oggi credo di avere acquisito una diversa percezione di me stesso e anche la pena la vivo in modo diverso. La direzione della pena perché abbia un senso è quella che le stiamo dando.
Walter: Prevenzione è essere responsabilizzati verso gli altri. So di essere stato cresciuto male, questo non è un alibi ma una realtà. Adesso ho capito che alcune cose vanno costruite con gli altri. Ora non posso giocare a scarica barile o mi priverei della mia vita e non potrei riconquistare la vita che mi spetta.
Marta: Se chi ti punisce sparisce, nella mente rimane l’immagine negativa di chi ti ha punito e vivi un senso di impotenza, il rapporto con chi ti punisce si interrompe. Allora saranno le abbuffate di melanzane a mantenerlo vivo! Marcello ha parlato spesso di identificazione con l’aggressore, le melanzane alla parmigiana mangiate voracemente prendono il posto di se stessi quando ci si è sentiti aggrediti, in questo modo assumi un ruolo attivo e ristabilisci un equilibrio.
Stefania: Il senso di colpa è frutto di un lavoro?
Massimo: Ci sono diversi modi di vivere il senso di colpa.
Alessandra: Mi chiedo se i segnali che portano alle abbuffate di melanzane non possano essere ascoltati. Non possiamo educarci ad ascoltarci?
Aparo: Chi vive il piacere di godere di Bach vive un lusso, il lusso di godere di ciò che altri hanno fatto prima di noi o fanno insieme a noi; come un lusso è potere godere della cultura del contadino che sa come ottenere del buon latte dalla mucca. Se a 14 anni giri con una pistola, non sei destinato al lusso di godere della poesia ma ad ammazzare te stesso e gli altri.
Chi può pensare agli altri come persone con cui giocare vive un lusso. Chi punisce deve avere cognizione della desolazione in cui vive chi rapina. L’alternativa al mito e alla seduzione dell’eroina sono gli eroi di Omero.
Silvia: Il senso di colpa se non ti fa godere di Calvino è una pena; il senso di colpa ti deve invece fare scoprire Calvino. E’ un passaggio, un trampolino.