Livia Nascimben | 28-02-2005 |
Poco prima dell’arrivo degli scout al gruppo, scaldiamo i motori in tema di rancore, abuso e punizione.
Walter: Le pene si possono infliggere e autoinfliggere. L'autopunizione la identifico nel rimanere fermo con la paura di muovermi e cambiare.
Borasio: Il cambiamento è sempre considerato una minaccia, a tutti costa fatica cambiare, è più facile accettare il cambiamento quando riguarda gli altri. In che senso dici che non cambiare è un’autopunizione?
Walter: Cambiare richiede sacrificio e coraggio, chi sta zitto per paura ma ha da dire la sua, chi non mangia pur sapendo che mangiare è necessario, chi commette reati sapendo che prima o poi finirà in galera si pone da sé la propria pena. Io vorrei confrontarmi con gli scout sul pessimismo e la paura a fare bene.
Armando: C’è un punire che non porta a nulla e un punire per avere un ritorno dalla punizione. Credo sia indispensabile spiegare il perché delle cose altrimenti non puoi capire i motivi per cui sei stato punito e, finita la punizione, continuerai a fare male, soprattutto non porterai rispetto a chi ti ha punito, pur se nelle sue intenzioni c’era di fare il tuo bene.
Marcello: La punizione può essere evolutiva o regressiva e ciò dipende molto da come si pone chi infligge la punizione verso la persona che punisce. La punizione può servire a recuperare una persona se di fronte c’è un’autorità che responsabilizza, ma la punizione può essere vissuta anche come abuso quando l’autorità agisce in modo arbitrario.
Tirelli: Quando una punizione non è data per una violazione di una regola chiaramente posta è vissuta come arbitraria e genera rancore.
All’arrivo degli scout, raccolte le immagini e riassunte le costanti si apre il confronto.
Aparo: Quali caratteristiche assume la relazione fra chi punisce e chi viene punito nel mondo affettivo di chi subisce una punizione? E, in particolare, come si connota tale relazione in presenza e in assenza della continuazione tangibile del rapporto fra i due?
Secondo il nostro ideale come dovrebbe prodursi una punizione? La legge come interpreta la punizione e, in particolare, la pena? Quale parentela esiste, nella mente del condannato e del comune cittadino, fra la punizione ideale e la pena?
Armando: Essere puniti non è sufficiente a non commettere più reati, la punizione non basta. Occorre che chi viene punito abbia consapevolezza dei motivi e dei fini della punizione per non percepirla come negativa. Da ragazzo non ero un cattivo studente, a scuola andavo bene ma ero molto distratto e perdevo spesso libri, quaderni, penne. Mio padre un giorno si mise a urlare per questo e non mi fece vedere la partita di coppa come punizione; poi mi richiamò, disse a mia madre di preparare due caffè e mi spiegò i motivi del suo punirmi: “Ti do la punizione perché sei un bravo studente, ma per crescere devi anche imparare ad essere ordinato o ciò che hai studiato non varrà niente.” Non avevo mai bevuto un caffè con mio padre, quella volta fu importante e ancora oggi la spiegazione del perché di quella punizione mi è rimasta impressa.
Marcello: Secondo me, l’autorità (sia essa un genitore, un agente o un magistrato) è ideale quando ti fa crescere, quando con la punizione ti dà qualcosa, quando cerca di responsabilizzarti; se invece abusa del suo potere su di te, deroga dal suo ruolo, fa riferimento a qualcosa di personale e non alla legge, allora la punizione è vissuta come un abuso. Il rischio, in questo caso, è di allearsi con chi abusa. Io mi sono sentito impotente di fronte all’abuso, in un tempo in cui non avevo gli strumenti per difendermi, e l’unica strada che mi sembrava percorribile per uscire dalla condizione di impotenza era di interpretare anch’io il ruolo di chi abusa. Ora so di essermi alleato con l’autorità sbagliata.
Massimo: Con la punizione dovrebbe essere mantenuta un’interazione tra punito e punitore perché non si creino fantasmi nella mente di colui che è punito e non aumenti la distanza tra i due. Se un padre, ad esempio, costringe il proprio figlio a stare in camera a studiare perché va male a scuola, il figlio che aveva pochi strumenti prima della punizione non riuscirà a studiare meglio, ma se quello stesso padre che punisce si mettesse a studiare insieme al proprio figlio potrebbe fornirgli maggiori strumenti.
Matteo: La punizione non produce sempre un esito positivo pur se gli intenti sono positivi perché non sempre viene data con modalità opportune; inoltre ci deve essere anche la disponibilità di chi è punito a mettersi in discussione e ad aprirsi e accettare gli stimoli che gli vengono dati.
Raffaella: Da piccola sono sempre stata una bambina discola e mi aspettavo l’arrivo delle punizioni; ai detenuti vorrei chiedere quale dovrebbe essere per loro la punizione ideale visto che commettendo reati, in qualche modo, sapevano di andare incontro alla pena.
Un detenuto: Portando in giro la droga, sapevo che prima o poi sarei finito in carcere, ma non mi sono mai chiesto cosa sarebbe successo in carcere. In carcere è difficile aumentare la consapevolezza dei propri errori e individuare cosa potere fare domani, il carcere non cura, fa diminuire i sintomi che prima o poi tornano prepotenti.
Danilo: Il carcere dovrebbe essere un ambiente costruttivo, chi punisce deve avere ben chiaro l’obiettivo e una possibile strada da percorrere.
Walter: Molte immagini e osservazioni mi pare sottolineino come la punizione viene subita; secondo me la punizione che allontana il figlio dal proprio padre è pericolosa. Io quando mi drogavo al parco aspettavo, in modo poco dignitoso, di tirare fuori gli artigli. Alle volte chi sbaglia non ha chiaro dove vorrebbe andare in alternativa alla punizione.
Aparo: Nelle parole di Walter, ma anche in altri interventi, è indicato un modo di sbagliare che coincide col tradimento delle proprie aspirazioni primarie. Ufficialmente si rapina per soldi ma non è detto che sia quello l'obiettivo primario. Spesso si trasgredisce non perché con la trasgressione si realizzi il proprio desiderio ma perché si vive una fase di confusione per cui si sbanda proprio dal desiderio.
Se tradisco il mio sogno, c’è bisogno di qualcuno che mi aiuti a recuperarlo; se sbando mentre cerco me stesso, ho bisogno di qualcuno che non si limiti a punirmi ma che aggiunga un’indicazione utile per rintracciare l'indirizzo giusto.
Le istituzioni che lavorano per promuovere l'evoluzione del cittadino possono fare a meno di chiedersi come mai le prime aspirazioni di un bambino finiscono per prendere la forma dei soldi che si ricavano da una rapina o della pace che si si inietta con l’eroina? Se siamo sicuri che chi cerca l’oro e la droga sta sbagliando indirizzo, allora è doveroso chiedersi quali informazioni mancano a chi ha perso la strada.
Valeria: Secondo me, la punizione è un elemento necessario per crescere, anche se da bambini è subita come qualcosa di negativo. Chi è punito accetta la punizione se trova un legame affettivo con chi lo punisce; al momento può non giustificarla ma se è mantenuto il legame poi la può capire. L’affermazione “lo faccio per il tuo bene” non si può comprendere se è imposta dall’alto.
Marcello: Nel fare reati sapevo dove sarei arrivato, ma il desiderio di riprendermi ciò che non avevo avuto era più forte del pensiero del carcere: mi sentivo legittimato dalle mie mancanze a compiere reati e coi reati avevo la sensazione di colmarle. A volte commettevo reati per punire, rubavo delle macchine e poi non me ne facevo niente, le abbandonavo da qualche parte; non avevo l’immagine dell’altro dentro di me. Il carcere ti mette davanti agli sbagli e ti dà l’opportunità di recuperare ma sono poche le attività con le quali puoi cercare di dare significato ai tuoi comportamenti.
Cristian: Sono stato arrestato per rapina, è stata soprattutto la mia famiglia a soffrirne, soffriva nel venirmi a trovare in questo posto. Io ho fatto loro molte promesse che non ho mai mantenuto, già dalle carcerazioni al carcere minorile Beccaria. Quando sei punito provi odio verso la legge perché senti che è applicata nel modo sbagliato, allora quando esci te ne freghi e commetti altri reati.
Uno scout legge lo scritto di Ernesto Bernardi “Sogni miei”.
Cajani: Questo incontro ci sta dando l’opportunità di mettere insieme mattoni e caselle significative. Spesso ci si chiede perché punire. Meno spesso come punire, perché rispondere a questa domanda è più difficile. La Costituzione parla di rieducazione della pena, spesso però la pena è repressiva perché, per il principio dell’economicità, produrre sofferenza è un modo più facile di punire, si pensi allo schiaffo del padre. Se si vuole punire bene qualcuno ci deve essere una relazione, occorre interrogarsi su chi andiamo a punire e prenderci carico di lui.
Tirelli: La punizione si traduce spesso in allontanamento, in senso di solitudine con domande che rimangono senza risposte; altre volte invece il padre fornisce spiegazioni e strumenti. La punizione del maestro verso un bambino spesso è un intervento arbitrario secondo una modalità che non risponde a nessuna linea di condotta. Questo tipo di punizione è sentita ingiusta, viene mal tollerata perché l’autorità non è prevedibile e non segue nessuna regola.
Paradossalmente la punizione più garantita è quella che dà la legge perché i comportamenti puniti sono chiaramente descritti. Sembrano comunque punizioni ingiuste perché non tengono conto dell’uomo; per questo la legge ha introdotto attenuanti e aggravanti delle pena che tengono conto dell’iter del soggetto.
Un tempo lo scopo della punizione era retributivo: violi un principio e paghi, ti rendo ciò che di male hai fatto. Oggi la difficoltà di trovare una giustificazione alla pena ha portato all’evoluzione del concetto di punizione. Alla base della punizione c’è l’esigenza di tutela della sicurezza sociale.
La pena è diversa dalle modalità di esecuzione della pena. La pena tende alla rieducazione del condannato ma mancano gli strumenti perché il detenuto possa rivedere il proprio passato, cercare le ragioni dei propri comportamenti e rivedere sé insieme agli altri.
Walter: I sogni e i desideri di ognuno sono da ricercare. In questo momento non mi sento un rapinatore ma un raccoglitore di nuove idee, pensieri, nuovi modi di vedere le cose. Credo che per chiamarci società civile, dietro la pena ci debba essere un reciproco senso della responsabilità.
Luigi: Quando una persona delinque ha difficoltà a riconoscere l’altro e i suoi desideri. Come può la pena aiutare a capire come intrecciare i sogni di ognuno?
Enzo: Sono padre, pensavo non avrei mai punito i miei figli come sono stato punito io nella mia infanzia, ma con la mia carcerazione ho dato loro la maggiore punizione che un figlio possa avere.