Lo stesso progetto |
Alessandro Crisafulli | 03-02-2010 |
Ascolto le parole della signora Manuela Re: ”Io ho bisogno di credere negli uomini” e mi sento invitato, anzi dolcemente obbligato ad amare la vita. Queste parole non denotano solo un animo nobile, sensibile, propenso ad accogliere coloro che, consapevoli di aver sbagliato, si impegnano per modificare il proprio cammino, ma anche intelligenza e pragmatismo.
Se ci pensiamo bene, noi tutti siamo, in un certo senso, “obbligati” a credere negli uomini; ogni giorno affidiamo la nostra vita ad altri uomini, spesso senza neppure conoscerli. Tali uomini possono essere i meccanici che ci riparano la macchina, nei quali confidiamo che non dimentichino di avvitarci un bullone della ruota; oppure possono essere coloro che ci vendono il cibo, o ancora medici, avvocati, poliziotti. Voglio dire che noi uomini siamo tutti necessariamente collegati e che, in fondo, facciamo tutti parte dello stesso “progetto”.
E’ vero, nel bene e nel male la potenza del pensiero non ha limiti; i pensieri traducono i desideri, i quali, a loro volta, sono esigenze dell’anima. Noi siamo l’anima, come sostengono i “Veda”, antiche scritture che risalgono a 5000 anni fa, sulle quali si basa la filosofia “Hare Krisna”, che pratico e studio. Ma la cosa più impressionante, a mio avviso, è che i pensieri hanno una funzione modellante sulla nostra vita; in sostanza “noi siamo ciò che pensiamo”.
Il giorno del concerto ho calzato, effettivamente, un paio di scarpe che uso raramente. Certamente non sono comode come potrebbero, visto il terreno che hanno solcato; inevitabilmente, la mia andatura ne ha risentito. Quando mi sono incamminato verso il palco, ero come un bambino che muove i primi passi: goffo, un po’ malfermo, ma con la stessa luce negli occhi di chi si affaccia con fiducia alla vita. Ci sono voluti tanti anni di preparazione per essere in grado di calzare le “scarpe nuove”: ho dovuto rieducare i miei piedi, che non accettavano di entrare in queste scarpe rigide. Ma tutte le scarpe si possono ammorbidire; come ha detto la signora Manuela “è una questione di allenamento”. Alcune hanno bisogno di più tempo, di più attenzione, di più abnegazione ma alla fine cedono e diventano comode.
In anticipo non è dato sapere se queste scarpe sapranno camminare nel mondo e le certezze assolute non esistono, ma dopo un buon allenamento, un’accurata valutazione e un previo collaudo, si potrà ragionevolmente confidare che possano farcela. Una volta appurata la loro idoneità, c’è però bisogno di persone che credano veramente nel famoso dettato dell’art. 27 della nostra Costituzione: “… le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per fortuna, noi ne abbiamo qualche esempio vicino: il Direttore di Opera, Giacinto Siciliano conferma con i fatti ciò che sottolinea nei suoi interventi, ossia di credere nella possibilità di recupero del condannato.
L’ultima volta che ci siamo visti, il dott. Aparo ci ha girato una domanda fatta da una persona che ha assistito al concerto: “Ma come fanno questi uomini a sopportare il peso di ciò che hanno fatto?”
Personalmente sono conscio che dovrò convivere fino alla fine dei miei giorni con il mio passato; esso fa parte del mio bagaglio e pertanto dovrò sopportarne il peso. Oltretutto sarebbe troppo comodo disfarsi delle cose delle quali non ci si sente fieri come ci si libera di un oggetto; quando si arriva ad uccidere non si torna più indietro, non c’è possibilità di riparare!
Spesso mi sono chiesto perché sono dovuto cadere così in basso per raggiungere un minimo di consapevolezza. La risposta, lavorando con gli psicologi, l’ho trovata in quella che ho definito “infanzia negata”, alla quale però non permetto di diventare un alibi per giustificare le mie aberrazioni. Non c’è periodo di galera che possa lenire ciò che sento nel cuore: la vera espiazione avviene dentro di me.
Il passato non si può dimenticare ma si può accettare. Poiché non si può ritornare indietro, mi preparo nell’eventualità che un giorno possa mettere al sevizio dei giovani la mia esperienza criminale e detentiva, per dare ad alcuni almeno qualcosa di quel tanto che ho tolto ad altri. Inoltre, credo che se il mio contributo potrà portare giovamento ad almeno un ragazzo, questo potrà permettermi di trovare un po’ di pace e di dare un senso, per dirla alla Fabrizio De André, alla mia"storia sbagliata".