Il mio nome, il nostro progetto |
Walter Madau | 04-11-2009 |
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Non ho dubbi sull’efficacia che ha il lavoro del Gruppo! Qui certamente si cammina su un terreno adeguato, dove si possono osservare, ricostruire identità perdute, preparare e mettere a punto nuovi strumenti per vivere una vita soddisfacente, dentro i canoni della legalità. Tutto questo non avviene per caso. Avviene mettendosi in gioco, scrivendo, parlando, comunicando, impegnandosi su argomenti, concetti e metodi che motivano a riflettere, ma anche a compiere un passo ulteriore: quello di assumersi delle responsabilità… e con piacere mettersi alla guida della propria vita. Mi piace usare il termine “guida”, mettersi alla guida, perché è proprio vero che uno al volante, sia di una Ferrari o di un’utilitaria, ha bisogno di conoscere il mezzo, i suoi limiti, le sue potenzialità e le sue imperfezioni su asfalti umidi… insomma bisogna conoscersi in primo luogo e riconoscere. Per esempio, noi ultimamente stiamo studiando un’ipotesi di progetto, un lavoro che in sintesi (ma proprio in sintesi) ha per nome “Il mio nome, il mio progetto” e che io, con tutta umiltà, visto che questo progetto ha addietro 30 anni di esperienza lavorativa del coordinatore del Gruppo, vorrei in piccola parte modificare e sintetizzare con “Il mio nome, il nostro progetto”. Sto parlando di creare una cooperativa di lavoro che possa portare il lavoro qui fatto, o meglio, il lavoro dei singoli progetti qui fatti, fuori dal carcere, che abbia almeno due pilastri portanti: uno è quello del lavoro, l’altro è quello di un punto di riferimento psicologico, che può dare una figura come quella di chi conosce bene il tuo progetto, le tue ambizioni ma anche tuoi limiti e carenze. Sto parlando al gruppo, ma mi piacerebbe che la voce andasse un po’ più in là. Perché io qui non sto parlando di qualche scimmia allo zoo, di un sacchetto di noccioline e di un turista. Sto parlando di un progetto serio e necessario! Necessario proprio a tutti, che dovrebbe riguardare anche il vicino di casa appena rapinato e il vicino di casa che ha bisogno di sgombrare una cantina, imbiancare la casa o piastrellare il bagno. Mi piacerebbe parlare alle istituzioni e chiedere un ulteriore aiuto per far sì che il lavoro svolto qui, e dalle stesse istituzioni autorizzato, possa continuare a crescere. Chiedere un ulteriore passo in avanti per un gruppo di persone al quale è stato permesso di nascere, che poi è cresciuto e si è sviluppato e che ha anche progettato qualcosa di attendibile, equilibrato e onesto. Persone che hanno raggiunto il loro fine pena o che hanno mostrato serietà, che hanno raggiunto i tempi per accedere a misure alternative hanno bisogno di usufruire di un tale progetto, hanno bisogno di un trampolino di lancio fuori dalla porta carraia di un carcere, un trampolino di lancio per aiutare a scavalcare sicure rovine, pregiudizi e ostilità. Chiedo a tutto il gruppo se non possiamo provare a invitare al convegno delle persone intelligenti, sensibili al problema e soprattutto influenti, come Maria Grazia Guida e Don Virgilio Colmegna, vice direttrice e capo di strutture che lavorano già su questo fronte; Roberto Bussini, presidente di una cooperativa di lavoro; Walter Nulli, Giovanni Martino che lavora spesso con detenuti in art. 21. Si tratta di persone che possono essere interessate a darci buoni consigli o, perché no, inglobarci o usare il gruppo come bacino di lavoratori. Ma come si fa a non essere interessati davanti a tale ricchezza, urgenza e necessità? Come si fa a non stringere nuove alleanze per fare tutto questo? Noi abbiamo bisogno di farci conoscere, abbiamo bisogno di completare un lavoro iniziato, come un’opera d’arte che chiede di non essere abbandonata incompiuta.
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