Antonella Cuppari | 24-03-2004 |
Sabato ho portato la tua lettera al gruppo. Sentivo di avere un compito importante: farmi tua portavoce. Ero ansiosa e preoccupata, desiderosa che l’ambiente e le persone presenti fossero attente e accoglienti.
Ho cominciato a leggere delle tue paure, del perché non ti è concesso fare una torta per la festa del papà, del tuo desiderio di “vincere te stessa”, del tuo invito a fare della mia sfida personale un obiettivo comune per me e per mio padre. Mi sentivo vibrare, la voce mi tremava.
E’ seguito un attimo di silenzio, un silenzio che lasciava spazio a quello che di te hai voluto darci con quella lettera. Poi sono cominciati gli interventi:
Armando: “Quanti dubbi mi trasmettono queste parole. Forse le risposte ai perché non possono essere trovati negli occhi degli altri, ma dentro di me.”
Fabio: “La sento vicina nel dolore. Da giorni speravo che arrivasse questa lettera. Il fatto che abbia risposto ad Antonella, e il fatto che oggi io posso godere di queste parole, mi fa felice e al tempo stesso mi riporta dentro di me, dentro i miei perché e dentro ai miei rimorsi.”
Diego: “Quel giorno mi sono raccontato, quel giorno mi ha dato molte emozioni. Il fatto di poter sentire le sue, adesso, mi fa sperare di poterla ancora avere qua, al gruppo.”
Aniello: “Barbara Bartocci e sua madre sono davvero da valorizzare. Mi danno speranza e forza. Non è facile entrare nella tana del leone.”
Rossella: “Credo che solo il cercarsi può permettere alle persone di andare avanti insieme, al di là delle ragioni di ciò che si è commesso.”
Massimo: “Credo di aver capito che per sanare la mia ferita non posso trovare da solo risposte ai miei perché. L’unica cosa che mi può aiutare è il confronto.”
Aparo: “Si tratta di riconoscere le parti di noi che ci compongono e che non sempre riusciamo a sentire facilmente, ma anche di riconoscerci nell’altro. La nostra meta non consiste nello spiegare noi stessi agli altri, nell’esternare il nostro dolore o i nostri sensi di colpa, ma nell’alimentare il rapporto con gli altri, e nel riconoscerci in quello che gli altri, pur diversi da noi, vivono e vogliono dare di sé. Bisogna allearsi con chi ha qualcosa da dare; questo dice Barbara Bartocci, questa è vita, crescita, evoluzione.”
Sabato mi sentivo bloccata, non sentivo la fluidità che provo quando riesco a servirmi degli altri, e dei loro interventi per attingere alle mie emozioni. Volevo risponderti, sentivo il dovere di farti sapere quanto le tue parole fossero state preziose per me e per gli altri, di dimostrarti che la sfida di cui parli nella tua lettera, la sentivo in parte anche mia e del gruppo. Ma non riuscivo a mettere insieme i pensieri, ad ascoltarmi. Ho deciso, così, di aspettare.
Il lunedì successivo sono andata nuovamente al gruppo; Fabio mi dà uno scritto, mi chiede di leggerlo per lui. Lui che parla poco, lui che è sempre in piedi appoggiato al muro. Lui e il suo macigno… un macigno di cui mi sembra di sentire il peso.
“Non posso” è il titolo: comincio a leggerlo. Parla di quell’incontro con te e con tua madre, parla di sé, degli occhi delle sue vittime, del ragazzo che ha ucciso. Parla di come sia difficile trovare le parole per raccontarsi, per dare una forma ai tiranni che lo dominano; parla della sua paura di lasciare trapelare emozioni che agli occhi degli altri possono apparire scontate.
Quel lunedì mi sono sentita in quegli occhi, sentivo che Fabio mi stava dando una voce. Il fatto che lui vedesse nei miei occhi una vittima, paradossalmente, mi ha fatto sentire una sua alleata.
Con la mente ritorno ad undici anni fa. Mio papà ucciso, un papà di cui non era chiaro il passato e i “giri” che aveva. Piazzata su tutti i giornali come un burattino, con frasi mai dette in interviste mai fatte. Avevo mille domande nella testa, ero terrorizzata, volevo sparire, un po’ per la paura che anche io, o mia madre, o le mie sorelle potessimo essere uccise, un po’ per l’umiliazione che i giornalisti, e i conoscenti ci stavano facendo sentire. E quelle domande sono diventate silenzio, buio e oppressione.
Ricordo poco di mio padre, ricordo poco della mia infanzia; ciò mi fa star male perché mi sembra di non avere una mia storia. E quando vado al cimitero da mio padre, quasi non lo riconosco e mi sento in colpa. Quando guardo le foto di me bambina mi sembra di guardare le foto di un’altra me, morta undici anni fa.
Da quel giorno ho sempre negato quello che mi era successo, iniziate le scuole superiori, dicevo a tutte che un padre l’avevo. Difficile nascondere quella che ero, difficile dimenticarmi di un passato che mi apparteneva. Tanto più aumentava il bene che volevo ad un’amica, tanto più sentivo che non potevo nascondere questo aspetto così importante della mia vita.
Nel gruppo ho sperimentato spesso questo disagio; da una parte il desiderio di raccontarmi, dall’altro lato la paura di essere nuovamente additata, allontanata col silenzio.
Poi c’è stato l’invito di Aparo ad essere presente all’incontro con te e la tua mamma, la mano calda di Livia sulla spalla, poi ho parlato. Ed era come se mai l’avessi fatto prima, sentivo una paura fortissima, sentivo girare tutto intorno a me. Temevo che quello che usciva potesse andare perduto o distrutto.
La sensazione di avere una voce e di sentirmi viva, l’ho rivissuta nuovamente quando leggevo lo scritto di Fabio, quando leggevo le sue di emozioni e i suoi dubbi. Adesso mi vengono in mente le parole dette da Aparo dopo la lettura dello scritto:
“Ci sono errori a cui non si può rimediare. Il senso di colpa è un sentimento che non va abbandonato perché esprime la consapevolezza del male che si è fatto. Il senso di colpa può portare a distruggersi, facendoci ricadere dentro noi stessi o può motivarci ad andare verso il mondo, e a mettere le nostre risorse al servizio dell’evoluzione.”
Sento l’importanza di queste parole. Vivo su di me i frutti di una persona come Fabio che sta facendo del suo macigno tanti mattoni che io sento importanti per stare bene. Mi vengono in mente le parole che Diego mi ha rivolto al termine dell’incontro: “Ho sempre fatto fatica a parlare di quello che ho fatto. L’incontro con la signora Bartocci, la lettera di sua figlia Barbara, le parole di Fabio mi danno il coraggio di poter ripensare a quello che ho fatto e alle mie emozioni.”
Vorrei chiamarti e averti ancora al gruppo. In quella lettera sento che hai consegnato una parte preziosa di te, che tutte le persone del gruppo hanno nella testa.
Con profonda gratitudine.
Antonella
Gruppo della Trasgressione