Il calco e il manichino | |
Angelo Aparo | 22-01-2005 |
Non ci si muove, spesso |
La dinamica del rancore funziona più o meno così.
Ad attivarla è una sensazione di impotenza di fronte a qualcuno che ci sovrasta o che ci invade, che ci impedisce di sentirci in sintonia con noi stessi, che frustra la nostra creatività, che ci confina entro un recinto opprimente e sul quale grava la presenza di chi ha il potere di scegliere per noi e, spesso, di scegliere contro di noi.
Verso questa figura, schiacciante e/o invasiva, sviluppiamo un odio profondo. Se questo si verifica quando siamo molto piccoli, questa figura è quasi inevitabilmente uno dei nostri genitori. Ma i nostri genitori sono anche le persone di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere e che amiamo. Accade pertanto che si attivano verso la stessa persona due sentimenti intensi, conflittuali e, proprio per questo, destabilizzanti.
Si può cercare di provvedere eliminandone uno dei due, ma un sentimento non si lascia mai cestinare fino in fondo; una traccia dentro di noi rimane comunque.
La cosa più affascinante, però, è che il sentimento che cerchiamo di tenere distante si ripresenta in un modo o nell’altro tutte le volte che vorremmo gioire, vivere liberi; tutte le volte che un evento o una nuova relazione ci motivano verso quella creatività che in tempi remoti qualcuno ha frustrato o ha messo sotto chiave.
A ben pensarci, non è nemmeno troppo strano: l’odio verso chi ha ostacolato le nostre scelte e frustrato la nostra creatività si ripresenta, richiamato proprio dalla possibilità che abbiamo di vivere oggi tale creatività e di esercitare la nostra libertà di scelta.
Accade allora che tutte le volte che siamo chiamati all’appello per amare o per vivere la nostra libertà, il sentimento al quale vorremo affidarci ripesca dal fondo di noi stessi quell’altro con cui il primo ha convissuto e combattuto.
Di solito, rintracciamo nella realtà attorno a noi una figura sulla quale riversare l’ostilità e il rancore che viviamo verso il nostro personaggio antico e, fino a quando riusciamo ad attribuire a una figura esterna la determinazione a ostacolarci, otteniamo una temporanea sospensione del conflitto con noi stessi.
Tuttavia, il personaggio che ci ha oppresso in età precoce non viene mai liquidato, né attraverso il cestino né attraverso il manichino al quale cerchiamo di assegnare le sue sembianze. Il calco di questo personaggio ci rimane dentro (e infatti da quel calco traiamo i vestiti da assegnare a ogni nuovo manichino che incontriamo).
Ma, in verità, non è il calco che rimane dentro di noi; siamo soprattutto noi a tenerlo dentro e una ragione c’è: in fondo, noi vorremmo che quel personaggio imparasse a comportarsi diversamente verso di noi, imparasse a tollerare ed anzi ad assecondare la nostra voglia di vivere, di scegliere.
Noi, dunque, lo teniamo dentro perché una parte dei nostri desideri vorrebbe insegnargli a prendersi cura di noi nel modo migliore.
Ma il calco del personaggio che abbiamo interiorizzato non prevede questo: tutte le volte che si verifica un incontro ravvicinato col calco interno (e/o con un manichino esterno) finalizzato al tentativo di rieditare e riformulare la relazione antica e di giungere a un esito più favorevole del conflitto, il calco non ci sta.
In effetti, siamo noi che non ci stiamo, siamo noi che non riusciamo a rivedere la nostra antica relazione col tiranno; abbiamo paura che, rivisitando i tratti del personaggio cattivo che ci ha oppresso, finiremmo per perdere anche il personaggio buono che abbiamo desiderato e che speriamo sempre di trovare. Ma per avere qualche possibilità di rintracciarlo dobbiamo tenere dentro saldo il legame con chi ci ha oppresso.
E verso un calco che continua a ridurre il nostro potenziale vitale, ma che siamo costretti a tenere dentro nella speranza di realizzare con esso una relazione che non sappiamo realizzare, si prova rancore.
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