A dispetto di qualsiasi divisione, di differenza e di credenza, il reato unisce e crea un filo di pensieri tra il carnefice e la sua vittima; tra chi sarà punito e chi ne chiede la punizione: entrambi sono destinati a conoscersi e a convivere con i loro tormenti! Chi ha subito e chi ha causato il danno non possono tirare indietro le lancette del tempo, possono solamente tentare di realizzare il desiderio di continuare a vivere, chi accettando il castigo e chi da questo castigo non si sente né appagato né risarcito.
Non voglio con ciò dire che da questa amara realtà debba per forza nascere un rapporto che aiuti entrambi a dimenticare, dico solo che è necessario fare i conti con l'accaduto per trovare una ragione alla vita: la vita, con i suoi misteri, ti porta a cercare a qualunque costo un modo per viverla, perché essa stessa ti conduce verso azioni e decisioni che favoriscono la sua continuazione. La vita vuole essere vissuta; il rancore o la vendetta non possono che condurre verso una direzione opposta, all'autodistruzione e alla sua negazione; se vive dentro di noi una pur piccola forma di energia positiva e vitale, si è inevitabilmente portati a dar vita a questa vita.
Comprendo che quando si viene colpiti negli affetti e nelle cose, è naturale cercare di "mettersi in pari" attuando la legge dell'occhio per occhio
ma colui che riesce a ribaltare questo diritto-vendetta, rinunciando al castigo, ha dato prova di una grande nobiltà interiore e di un lavoro senza pari, un lavoro che lo avvicina sempre di più verso quel traguardo ambito dall'uomo, quel traguardo per cui l'uomo è stato creato, quell'uomo per cui è stata necessaria la rottura di vincoli antichi (dell'occhio per occhio), per potere assomigliare sempre più da vicino al "Tutto" dal quale proviene: l'uomo è parte del processo della creazione, e quindi parte del tutto, parte di Dio e della sua grandezza. In tutto ciò c'è l'esigenza di farsi una ragione del vivere, una ragione di vita.
Io mi sono fatto una ragione di vita nell'accettazione del mio castigo. Io sono stato vittima e carnefice del mio delitto, di me stesso, nel senso che ho causato il mio stesso male e, nello stesso tempo, procurato la mia punizione.
Che diritto avevo io di punire con un reato la parte buona di me? Perché ho aggredito quella parte indifesa di me? Forse come reazione e come punizione all'impotenza e all'incapacità dimostrata da bambino di non aver saputo reagire agli attacchi subiti dai grandi? Anche se ciò può sembrare un paradosso, credo di essere e di appartenere a quella categoria di persone danneggiate da altri, io sono stato danneggiato da me stesso, da quell'eterno conflitto che si consuma dalla notte dei tempi tra l'animale che vive sempre dentro di noi e l'uomo che vuole essere coscienza della sua evoluzione, del suo sviluppo e del suo scopo di esistere come prova dell'autenticità e della giustezza della sua specie.
Anch'io ho ricominciato a vivere solamente nel momento in cui ho saputo accettare il mio castigo come unica forma di accettazione di me stesso, ho creduto come unico modo possibile per convivere con me stesso il perdono di quella parte di me che è stata la causa del mio male, il perdono dell'animale che ha abusato di me, di quella parte giusta di me.
Mi sono perdonato per continuare a vivere, benedico la mia pena perché ciò mi ha fatto capire la miseria dell'uomo quando ancora uomo non è, mi sono perdonato perché ho ritenuto questa l'unica via possibile per vincere il male che risiede dentro di me, dentro un uomo che non era ancora tale; mi sono perdonato perché credo che ciò sia l'unico modo per seguire l'indicazione che la vita mi dà.