Da La Stampa, Lunedi' 8 Marzo 1999

 

L' angelo del perdono entra in cella


Il padre del piccolo massacrato
dal mostro di Foligno: così rinasco
Gli uccisero il figlio, lui incontra i detenuti



Carlo Grande


L'incontro fra vittima e carnefice può generare paura, dolore, sete di vendetta. Il groviglio di ferocia narrato da Kubrick in Arancia meccanica o nel Borghese piccolo piccolo di Cerami e Sordi. Luciano Paolucci ha subito una violenza indescrivibile. Sei anni fa, vicino a Foligno, il figlio di 13 anni, Lorenzo, è stato massacrato con un forchettone per l'arrosto dal pedofilo Luigi Chiatti. Un anno prima Chiatti aveva ucciso Simone Allegretti, che di anni ne aveva quattro. Pochi giorni orsono Luciano Paolucci È entrato per la prima volta in un carcere, a San Vittore, per incontrare una dozzina di detenuti della sezione penale, fra i trenta e i cinquant'anni, con una montagna di anni di galera sulle spalle e davanti a sé. Paolucci ha scelto di vivere senza vendetta, fondando il movimento "La marcia degli angeli", che aiuta i bambini.


I detenuti riflettono da mesi con lo psicologo Angelo Aparo sulla trasgressione, le spinte che inducono al reato, all'abuso. Le trasgressioni di artisti e pop star sono affascinanti, a volte migliorano l'umanità. Chi ha violentato la libertà degli altri suscita rabbia. "Vogliamo capire - dice Aparo - cosa cerca chi uccide, chi ruba, chi spegne la fantasia delle sue vittime, rimanendo incapace di veleggiare con la propria, schiacciato nel ruolo di burattino del proprio rancore, miope tanto da scambiare una bella macchina per un cavallo alato, da vedere nella figura di un tabaccaio o di un bambino i cancelli intollerabili di una prigione emotiva. I detenuti vogliono incontrare la società civile, le persone che avevano confuso con i fantasmi della loro prigione personale".


All'incontro fra "vittima" e "carnefici" Paolucci giunge con un pullover marrone e occhi azzurri un po' sbarrati. Non sorride. San Vittore è un buco nero in mezzo alla città. A chi sta fuori spesso la pena non sembra abbastanza dura. Ma una volta nella vita si dovrebbe entrare in galera e svuotare le tasche davanti al metal detector, sentire il primo cancello sbattere e poi via via gli altri, aprirsi e chiudersi quattro o cinque volte. La prospettiva cambia. Il carcere è fatto di muri e corridoi grigi, agenti di custodia in tuta militare e mazzi di chiavi alla cintola, orologi e crocefissi enormi, telecamere, ferro a tonnellate: sbarre, catenacci, griglie, cancelli, manette. Entrarci da detenuti è un'altra cosa. Lo racconta il film Campo corto (ha vinto il Festival Noir di Courmayeur) girato da membri del gruppo di Aparo.

Romeo (otto anni per rapina e associazione a delinquere), rompe il ghiaccio: "Signor Paolucci, Dio mi guardi se il mio dolore non è autentico. Lei ha fatto in pochi mesi quello che io ci ho messo otto anni a fare: vincere la bestia dentro di me. Lei ha perdonato". "L'essenziale non è perdonare - risponde Paolucci - ma capire. Il peggio non è per chi è morto, ma per chi sopravvive. Chiatti mi fa pena. Mio figlio è morto, ma è morto anche lui".

Santino ha 46 anni, omicidio aggravato durante una rapina con la banda Vallanzasca. Ha passato 23 anni in 16 carceri diverse e tentato due evasioni, nel '77 e nell'82. In galera ha preso due diplomi, scritto un libro di poesie e un'autobiografia. "Mi è difficile essere comprensivo come lei - dice -. Fosse stato mio figlio... Il rancore non può scomparire". Paolucci intreccia le mani come se pregasse: "Queste cose non si risolvono con il rancore, Chiatti è stato arrestato ma ce ne sono altri pronti a fare come lui. Lo psicologo dell'orfanotrofio mi ha detto che di bambini così ne sono usciti a decine. Ho rancore per chi l'ha cresciuto, per i genitori che l'hanno adottato, che si sono accorti di cosa stava diventando e non l'hanno aiutato. La madre non era in grado di avere un bambino in adozione, ma l'ha voluto a tutti i costi. E' vissuto segregato, e quando ha visto due cose vive gli s'è scagliato addosso. Se fossi sicuro che è cambiato lo farei uscire oggi. Ma Chiatti non guarirà mai, la pedofilia è una smania più forte di lui, l'ha ammesso".

"Il sacrificio di suo figlio è un segno del destino?", incalza Claudio, sulla quarantina, fronte alta e profilo da indiano. E' dentro da sei anni per traffico di stupefacenti. "Non mi chiedo perchè Dio mi abbia imposto una cosa così brutale - spiega Paolucci -. ''Dio non ha colpa di quello che succede'', mi dice Lorenzo. ''Il bene e il male che fate riguarda voi''. Mi ha detto: ''Mentre mi uccideva sanguinava più di me''. Per molti sono un ipocrita, ma non me la sento di scagliarmi contro Chiatti".

"Ho fatto cose strane - dice Maurizio, un giovane siciliano con gli occhi chiari e arrossati, condannato per traffico di stupefacenti -, cose che creano sofferenza". Si guarda le unghie, mette a fuoco qualcosa: "Ora capisco quello che ero: uno fra cento, che assaggiano lo stesso piatto. Per tutti è ottimo, a me sembrava orrendo".

"Se ti chiudi sei finito - ribatte Paolucci -. Allegretti si è chiuso in se stesso, fa rivivere ogni giorno alla famiglia la morte di suo figlio. Ma bisogna adattarsi, fra tanti c'è sempre quello che ti aiuta"
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Alejandro è argentino, condannato per traffico di droga: "Se rivedesse Chiatti? Se le scrivesse?". Paolucci: "Non so cosa farei, a tu per tu, improvvisamente. Forse rimarrei freddo o... vorrei ucciderlo. La sera dei funerali ero pronto ad ammazzarlo. Ma quando è entrato in aula io e mia moglie ci siamo guardati: faceva pena. Lui contro tutti. Se mi scrivesse gli risponderei. Lorenzo mi ha detto che l'ha perdonato. Siamo qualcosa di più di un corpo che cammina".

"Sono stato due anni in isolamento - interviene Romeo -. Forse bisogna accedere al grado massimo di sofferenza, per avere la visione dei nostri lati peggiori".

Marcelo è uruguaiano, alto, brizzolato: traffico di stupefacenti. "Sei mai stato carnefice? - chiede -. Nell'amore, nell'amicizia?". Paolucci finalmente sorride. "Ero scontrosetto, ho picchiato qualcuno, provavo invidia per chi aveva più di me. Non ero religioso, bestemmiavo da tirar giù i crocifissi. Adesso so cosa vuol dire soffrire. Ho visto com'era conciato Lorenzo, un incubo. Ora è venuto fuori ciò che di buono avevo dentro. Abbiamo paura di tirarlo fuori. Invece bisogna vivere, farlo e basta. Voi potete aiutare gli altri a capire dove sbagliano. O chi sta per sbagliare a non farlo. Se fai finta di niente di fronte al male nella società, e poi questo ti colpisce, non puoi lamentarti: sei colpevole di indifferenza".

"Per migliorare nella vita - interviene Claudio - bisogna per forza soffrire? Per cambiare, le persone potenzialmente buone ma indifferenti devono subire un torto?". La parola chiave, per tutti, è "sofferenza". Ma ce ne vuole tanta: "Quando è scattata la molla, per ciascuno di voi?" chiediamo.

Romeo si accarezza la fronte: "Nel carcere di massima sicurezza non vedi la luce, ti chiedi: vivo o non vivo? Ho scelto di vivere".

"Ho cercato di farla finita tre volte - dice Alejandro guardando per terra -. Un giorno, al colloquio, mio figlio ha detto: ''Non voglio che papà muoia''. Mi ha tramortito. In cella mi sono guardato allo specchio: ''Ma cosa stai facendo?''".

Claudio ammette: "Amavo il denaro, mi hanno preso a 33 anni. Ho reagito: leggere, studiare, fare ginnastica. Sono cambiato in meglio". Santino ricorda l'adolescenza "in un quartiere dove delinquere era la regola. Mi sono rovinato l'esistenza. Ma in un carcere ho trovato persone che non erano nemici".

A Paolo (trent'anni, magro, accento meneghino, associazione a delinquere e rapina) brillano gli occhi: "Non riesco a venire a patti con il mio egoismo. Soffro per mia moglie e mio figlio. Il gruppo mi aiuta, ma appena solo soffro. Ho pensato di farla finita, ma forse sto cominciando a convivere con la sofferenza".

"Dopo ogni delitto - dice Alejandro - la società addita anche noi dentro: ''quei porci, bisognerebbe...''. Ma non voglio negare le mie colpe: l'arroganza, l'ambizione".

"Capisco - dice Aparo -, non a tutti rimangono fiaccole per cercare di capire chi ha creato rabbia e dolore".
Le vittime, convitato di pietra della discussione. Anche loro avrebbero qualcosa da dire. "Ma in qualche modo - insiste Aparo - la pena deve ricucire il baratro tra i colpevoli e le vittime, altrimenti è più appropriato parlare di vendetta".

La vendetta, scrive Cioran, è un bisogno, il più intenso e profondo che esista. Ognuno deve soddisfarlo, non fosse altro che a parole. Ma la vendetta, ha scritto Arthur Miller, fa del tuo cuore un sasso, ti trascina a fondo e ti affoga.