La maschera: identità o finzione?

A seconda dei casi, la maschera potrà
rappresentare realmente ciò che siamo,
la nostra ipocrisia, o una strategia difensiva.

Margherita Macis

Mi trovo, come avviene per ogni riflessione stimolante, di fronte a coppie di contrari.

La maschera è da pensare come un inganno non del tutto cosciente verso noi stessi e verso il mondo, o è uno strumento di cui ci serviamo a fini adattativi?
Si tratta di finzione o di identità?

Domande aperte per le quali non credo esista la risposta giusta ma solo tanti punti di vista che si integrano o si oppongono.
Sono proprio questi i temi che piacciono a noi, quelli che aprono il dialogo e promuovono il confronto con noi stessi e con il mondo.

Sono consapevole di portare una maschera quando voglio attivamente dare una certa immagine di me stessa, o quando agisco per principio e non come farei spontaneamente, quando mento, quando mi trovo in contesti e situazioni che, per forma o per mia insicurezza, mi inducono ad indossarla.

E così tutti quanti possiamo fare i "duri", o gli "amici" o le "vittime"; è in questo senso che intendo la maschera come ruolo. A seconda dei casi, la maschera potrà rappresentare realmente ciò che siamo, la nostra ipocrisia, o una strategia difensiva. Concordo pienamente con Luca quando afferma che "forse l'unico periodo della vita in cui non s'indossano è nel momento che va dalla nascita al momento in cui s'inizia a ragionare".

Non concepisco come maschere le varie funzioni che svolgo durante la giornata perché tutti i miei compiti (di figlia, di studente, di giovane che vuole divertirsi ecc.), fanno parte della mia identità: tante facce della stessa medaglia che sento integrate nella persona che io sono.

Anche quando indosso una maschera riesco a sentirmi me stessa, purché mi appartenga.
Se fa parte di me è uno strumento, magari contestabile, ma pur sempre un prodotto autentico.
Se la maschera diventa "far finta di essere ciò che non si è", allora ci tradirà e non ci sarà di nessun aiuto rivelando inevitabilmente la sua falsità a noi stessi e probabilmente anche agli altri.

A questo proposito cito la frase di uno scrittore americano a noi contemporaneo:

"Noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo essere molto attenti a ciò che facciamo finta di essere".
Kurt Vonnegut, "Madre Notte"

In Psicologia, "il termine persona ricorre in due accezioni:
1) come soggetto di relazioni […];
2) come maschera secondo il significato latino, che riferiva il termine alla maschera che gli attori adattavano al volto e, per estensione, al ruolo che un individuo rappresenta nel sociale"1.

In particolare C.G. Jung nel descrivere le istanze psichiche chiama Persona "la parte cosciente ed esposta della personalità psichica, quella che mostriamo agli altri, la finzione - dunque - la maschera (proprio in conformità con il significato etimologico della parola <<persona>>)"2. "Questo è l'aspetto che l'individuo assume nelle relazioni sociali e nel rapporto col mondo. Come mediatore tra l'Io e il mondo esterno, la persona ha il suo opposto nell'anima […]. Se l'anima è l'adattamento a ciò che è personale e interiore, la persona è l'adattamento cosciente a ciò che è collettivo. Come tale non è da leggersi come tratto patologico o falso, anche se può diventarlo quando l'individuo si identifica completamente con la propria persona, con conseguente scarsa consapevolezza della propria interiorità e incapacità di percezione di tutto ciò che va al di là del proprio ruolo sociale […]"3.



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1 Umberto Galimberti, Psicologia. Le Garzatine, Garzanti Editore, 1999
2 Secondo Giacobbi, Storia della Psicoanalisi, Teti Editore, 1993
3 Umberto Galimberti, ibidem