Guerra e speranza


Antonella Cuppari

  12-05-2004

Ieri mattina sono andata con mia madre a Milano, Stazione Centrale, dove dal 26 aprile al 23 maggio, sul marciapiede binario 21-22 c'è un'esposizione di immagini in occasione dei dieci anni di Emergency; si tratta di fotografie di guerra e di speranza provenienti dall'Afganistan, dall'Iraq, dalla Cambogia, dalla Sierra Leone.

In quelle immagini ho visto la vita; la vita di persone deturpate e amputate ma che riprendono a camminare e a vivere. Vite bloccate che progressivamente e faticosamente cercano di riappropriarsi del mondo; un mondo che ha portato via i loro sogni ma di cui si sentono ancora in diritto di far parte.

Ancora una volta mi sono resa conto che sono proprio quelle pozzanghere che a volte evito e ignoro, che mi fanno sentire la forza della vita, della costruzione.

Guardavo quelle immagini e vedevo i poli opposti di cui l'uomo è costituito: la forza distruttiva, onnipontente e narcisistica - in quei volti deturpati, in quei corpi straziati - e la sua capacità creativa, unica ancora più potente, di ricostruire la vita, lottare per essa, per riappropriarsi del mondo - nelle protesi che sostituivano gli arti mancanti, nelle costruzioni degli ospedali di campo.

L'unica cosa che accomuna questi poli è la potenza: di distruggere in un caso e di costruire nell'altro.

Questo elemento comune mi dà fastidio, perchè non mi permette di separare gli uomini in due categorie opposte e antitetiche e mi porta un mucchio di domande.

Perchè, per esempio, la guerra viene considerata una realtà inevitabile mentre la pace, a volte, viene vista come un'utopia non realizzabile? Perchè a volte ci si dimentica della forza costruttiva che appartiene all'essere umano?

Perchè a volte confiniamo questa potenza positiva nel regno dell'impossibile? Perchè a volte si arriva a credere che l'unico modo di rapportarsi alla realtà e al mondo sia quello di distruggere?

Domande che pongo a chi, come me, vive in questo mondo, a chi come me non riesce a collocarsi nella categoria dei buoni o dei cattivi, a chi come me guarda una realtà difficile da comprendere ma che, non per questo, è appagata da giustificazioni superficiali.