2.1 - Il contesto: luoghi, obiettivi e strumenti della pena |
2.1.1 - Il divenire della concezione della pena: cenni
Nel corso dei secoli la concezione di pena e delle sue finalità si è evoluta. Nelle diverse epoche il senso e gli obiettivi della pena sono cambiati, così come è mutato ciò che le diverse società hanno chiesto e chiedono al cittadino e al detenuto una volta condannato secondo le proprie leggi. Per lungo tempo le società hanno imposto pene a propria tutela chiedendo al cittadino che trasgrediva solo di sottostare alla pena; l’evoluzione dell’individuo non era né ricercata né promossa.
Nel corso della storia sono avvenuti notevoli cambiamenti relativi alla valorizzazione della persona e alla necessità di un trattamento individualizzato; i diversi Stati si sono impegnati ad offrire al reo gli strumenti per la rieducazione finalizzati a non interrompere in modo definitivo la relazione incrinata dal reato. Le attuali civiltà organizzate chiedono al detenuto, attraverso la pena, un’evoluzione individuale che comprende un modo nuovo di rapportarsi alla norma, di fare i conti con il proprio errore, di mantenere i rapporti sociali, di comprendere l’importanza di vivere in comunità.
Restringendo l'osservazione all'Italia, possiamo dire che gli obiettivi della legge si scontrano con condizioni di realtà nelle quali la pena viene vissuta ed espiata senza che il detenuto riesca a coltivare le relazioni necessarie alla sua evoluzione e senza che lo Stato riesca ad ottemperare all’impegno cui è chiamato dalle sue stesse leggi (Tirelli, 2005).
2.1.2 - La Legge n. 354 del 1975 sull’Ordinamento Penitenziario
L'obiettivo della rieducazione al quale l'amministrazione penitenziaria italiana è chiamata è stabilito, in via generale, dalla Costituzione (art. 27, comma 2), secondo la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e, in senso più concreto, dalla Legge n. 354 del 1975 che indica le “norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” nei confronti delle persone condannate a pena detentiva o destinatarie di una misura di sicurezza (Legge Gozzini).
In particolare l’art. 1 evidenzia i principi generali di trattamento e rieducazione; secondo tale articolo “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento é improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”
2.1.3 - Gli strumenti della rieducazione
Gli strumenti tramite i quali perseguire la rieducazione sono identificati dall'art. 15 della Legge n. 354 del 1975: “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia.”
La legge citata si presenta come una legge di grande respiro; l’idea è di una pena finalizzata alla ricostruzione dei rapporti tra il condannato e la società, all’evoluzione intrapsichica e interpersonale del detenuto, tuttavia gli strumenti effettivamente a disposizione degli operatori carcerari, che, oltretutto, vengono segnalati senza un’indicazione precisa sulla loro modalità di applicazione, la rendono una legge poco realizzabile. Inoltre, i vertici di un’istituzione chiusa tendono a investire più sulla funzione di controllo (“l’ordine e la disciplina” di cui all’art. 1) che sulla funzione di supporto alla crescita (“trattamento rieducativo che tenda al reinserimento sociale”). Di conseguenza, il carcere, pur avendo, secondo la Legge, la duplice funzione di controllare e sostenere l’individuo nel suo percorso evolutivo, risulta un luogo prevalentemente costrittivo.
Strutturalmente il carcere inibisce le spinte costruttive, deresponsabilizza e infantilizza le persone che vi sono recluse, rafforza il senso di esclusione e abbandono rendendo difficile il processo di trasformazione del detenuto; le condizioni sono tali che favoriscono nel detenuto più un inasprimento dei sentimenti che hanno portato a delinquere che un ripensamento sulle motivazioni del reato (Aparo, 1994).
2.1.4 - Lo psicologo in carcere
Lo psicologo carcerario, come indicato dall’art. 15 della Legge n. 354 del 1975, ha il ruolo di effettuare una “osservazione scientifica della personalità” del detenuto, ovvero di delineare un quadro dei tratti personologici del carcerato e individuare, in collaborazione con l’educatore, l’assistente sociale e il corpo di polizia penitenziaria, gli interventi utili al recupero delle competenze espressive e relazionali del singolo detenuto. Alla luce dei risultati dell’osservazione è compilato un “programma rieducativo”; successivamente sarà compito del Magistrato di Sorveglianza valutare l’opportunità di accordare il consenso alle proposte di trattamento. La stessa legge indica inoltre che “deve essere favorita la collaborazione dei condannati alle attività di osservazione e trattamento”.
Tuttavia, la persona privata della libertà vive in un tempo sospeso in attesa che la vita ricominci fuori dal carcere, fantastica di essere altrove e difficilmente investe sul tempo presente. Ne consegue che ciò che il detenuto comunica allo psicologo corrisponde a un tentativo di confezionare un racconto che possa indurre il professionista a stendere una relazione sul suo conto che ne promuova la riduzione del regime afflittivo, cioè il conseguimento di una “misura alternativa” (semilibertà, art. 21, affidamento ai servizi sociali).
Lo psicologo carcerario opera in un ambiente in cui mancano le condizioni affinché la persona possa riflettere sulla propria esperienza e costruire quello “spazio interiore indispensabile perché l’immagine di sé e della propria relazione con il mondo divengano positivamente articolate” (Aparo, 1994).
Il detenuto è consapevole che i colloqui con lo psicologo sono finalizzati alla stesura di relazioni di tipo diagnostico e prognostico e, a differenza del paziente che si rivolge allo psicoterapeuta per essere aiutato a risolvere i propri conflitti, la sua collaborazione con lo psicologo penitenziario non può essere autentica: il detenuto è nella condizione di “occultare consapevolmente quelle parti della propria storia che suggeriscono già a lui stesso le componenti patogene di certe esperienze; esibire motivazioni e opporre deliberatamente resistenze allo scopo di trasmettere all'interlocutore un'immagine di sé consapevolmente diversa da quella che egli ha di se stesso” (Aparo, 1994). In carcere vi è dunque l’impossibilità strutturale della comunicazione con/del detenuto e ciò porta l’operatore carcerario a disattendere sia l’obiettivo previsto dalla legge che le richieste del detenuto.
2.1.5 - San Vittore
La Casa Circondariale di San Vittore, storico complesso la cui inaugurazione risale al 1879, è situata in una posizione centrale della città di Milano. L’edificio, con la sua struttura a forma di esagono, copre un’area di circa 50 mila metri quadrati; dal nucleo centrale interno, detto “la rotonda”, partono 6 corridoi, i “raggi” o “reparti”, dove sono dislocate le celle; attualmente solo 5 dei 6 raggi sono agibili.
Le cifre sulla popolazione detenuta sono in continuo mutamento perché il carcere di San Vittore è una Casa Circondariale ed ospita principalmente detenuti in attesa di giudizio, teoricamente in transito. La situazione al 31 dicembre 2006 era di 102 donne, di cui 72 imputate e 30 condannante, e 1000 uomini detenuti presenti, di cui 879 imputati e 151 già con condanna definitiva.
Capienza Regolamentare | Detenuti Presenti | Posizione Giuridica | |||||||||
Imputati | Condannati | ||||||||||
D | U | Tot. | D | U | Tot. | D | U | Tot. | D | U | Tot. |
36 | 604 | 667 | 102 | 1000 | 1102 | 72 | 879 | 951 | 30 | 121 | 151 |
Situazione al 31/12/2006 - Presenze e capienze distribuite per sesso e posizione giuridica riguardanti il carcere milanese di San Vittore - |
Nonostante le carenze strutturali e i numerosi problemi di sovraffollamento, il carcere di San Vittore per la sua posizione, sotto gli occhi dei cittadini, ha un valore simbolico, sociale e di coabitazione con una situazione che non si può dimenticare né rimuovere.
“A San Vittore si sta male, si sta stretti, ma la gente viene, entra, guarda, parla. E' gente che porta vita, porta respiro. Un carcere in città significa che i cittadini liberi possono entrare. Significa che gli avvocati, i magistrati, ma soprattutto le famiglie possono venire più spesso e più agevolmente a farci sentire ancora in vita. Significa che il carcere può non diventare il macigno che ti schiaccia per sempre, rimanendo quello che è attualmente, un posto separato ma comunicante, perché finché si comunica non si muore, non si è seppelliti.” Le parole di Sisto, detenuto nel 2001 nella Casa Circondariale di San Vittore, evocano ciò che il carcere rappresenta: chiusura, separazione, rabbia, impotenza ma anche desiderio di comunicazione, di rinnovamento, di relazione.
“L'essere umano ha nelle mura del carcere la metafora della sua natura; l'uomo è il luogo della separazione, del conflitto ma, allo stesso tempo, è anche il luogo dove pulsa una spinta perenne a superare le barriere difensive che egli pone a se stesso; l'uomo, nonostante luogo di una separazione mirata a difenderlo da se stesso e dagli altri, è anche il luogo dell'invenzione di mille collegamenti possibili fra le parti separate. Il carcere, allora, oltre che metafora della separazione, può anche diventare esperienza del valico, del superamento del confine; e giocare, in tal modo, un ruolo propulsivo anche per il comune cittadino” (Aparo 2002, Introduzione al Convegno sulla sfida).
Il carcere di San Vittore, pur essendo un’istituzione chiusa, con le sue attività permette alla cittadinanza di entrare: il dott. Luigi Pagano, per lungo tempo Direttore del carcere milanese di San Vittore, ora Provveditore agli Istituti di Pena Lombardi, è stato il primo ad aprire le porte del carcere all’esterno perché il carcere diventasse un luogo di cultura e non solo di afflizione. Ciò nonostante, lo stesso Pagano sostiene che le iniziative positive promosse nel carcere e dal carcere non devono servire a sostenere che il carcere può anche fare bene: “oggi lavoriamo perché il carcere non sia indecente, prevaricante rispetto alla dignità umana, promuoviamo iniziative a livello di trattamento penitenziario per evitare che la persona si deteriori troppo e lavoriamo per il reinserimento, però dobbiamo prospettarci e avere in mente che il carcere va superato.” (Pagano, 2006)
In questo contesto e clima culturale è nato e opera il Gruppo della Trasgressione.
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