Il verme del contadino

Eric Bozzato

  05-05-2005
 

Da ragazzino ho abitato per circa tre anni in un paesino di montagna, pochi abitanti e prevalentemente anziani, contadini, boscaioli. Proprio uno di loro, il sciur Nino, regalò a mio padre un piccolo fazzoletto di terra, trenta/quaranta metri quadri, non di più, ricoperti completamente da rovi e da pietre. Mio padre desiderava coltivare un orticello già da un po’ di tempo e non poteva certo lasciarsi scappare questa chance. La domenica successiva al regalo, trasportò me, la moglie e il nostro cane, armati di zappe e falcetti, alla conquista del nuovo mondo.

Una volta estirpati i rovi, fu il momento della zappa, dei primi calli sulle mani, dei primi mal di schiena… successivamente passammo al setaccio tutta la terra, eliminando pietre e radici. Da che mi ricordo, fu quella la prima volta in cui ebbi il mio primo contatto col verme: era rosso, forse bordeaux. Mentre tenevo le mani affondate nel terreno involontariamente i polpastrelli delle dita andarono a toccare la sua viscida corazza; fu una sensazione disgustosa ed ebbi paura, non ero abituato al contatto con certi animali che popolano l’underground. Volevo schiacciarlo perché mi faceva schifo, e non volevo che nel nostro orto ci fossero creature così orrende. Provai ad ucciderlo con una pietra, ma nonostante fossi riuscito a spaccarlo in due parti lui continuava a muoversi.

Mio padre, che con la coda dell’occhio aveva assistito alla scena, mi urlò: “Ma che fai? Lui è nostro amico, lavora insieme a noi per costruire un bell’orto, è grazie a lui che la terra respira, la mangia e la sputa rendendola fertile…” Poi sospirando aggiunse: “Quando trovi i vermi nella terra significa che il terreno è buono: letame e vermi per i contadini sono come l’oro per i re.”

Inizialmente non ero molto convinto, cacca di mucca e viscidi lombrichi cosa hanno a che fare con l’oro? Non so se fu il tono rassicurante di mio padre o il muso allegro del mio cane che con lo sguardo seguiva la traiettoria lasciata dal lombrico, fatto sta che domenica dopo domenica accettai di avere al mio fianco un compagno di fatiche che da lento e viscido iniziò a diventarmi simpatico e importante.

Qualche mese dopo fu una soddisfazione vedere quei quaranta metri quadrati di rovi e pietre trasformarsi in un giardino pieno di fiori e ortaggi. Forse è per questo ricordo colorato che, mentre Enzo leggeva il suo scritto sul verme, uno scritto triste, rabbioso, la mia mente è corsa via, per aggrapparsi alla vitalità della frase di De Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, e non solo grazie al letame nascono i fiori, ma anche grazie ai vermi.

Successivamente, da De André la mia attenzione si è spostata su di noi, su questo gruppo dove tutti a turno siamo vermi, letame, terra, fiori, frutti, e così ho pensato alla vita, alla bellezza e all’importanza delle alleanze ai fini dell’evoluzione. Ho pensato al senso di appartenenza come strumento fondamentale per il raggiungimento di un obiettivo comune, l’orto fiorito, i frutti della terra e del sudore…

Ho pensato, identificandomi nella figura del verme, all’importanza e alla fortuna di trovare sulla propria strada un contadino sapiente che, nonostante il ribrezzo provocato dalle apparenze, sappia utilizzarmi rendendomi protagonista nel progetto di un orto fiorito. Il verme di Enzo nel vasetto del Basi di Georgiev renderebbe tutto più accettabile, persino qui… nell’inutilità di questo cemento freddo.

 

Via del campo Altri testi