Muoversi con la garanzia di essere osservati: meglio!

 

Livia Nascimben

Ciao Francesca,
per me non sei spiona, mi fa piacere che tu ci sia.

Io non mi sono mai seriamente posta la domanda "a che pro?", forse per ingenuità, forse per mancanza di, non so, responsabilità; o forse la domanda me la sono posta e la risposta è stata: "mi fa star bene". Non basta? Alla società non serve? C'è bisogno di qualcosa di più concreto?

Non so, questa esperienza è iniziata così, in modo per me inaspettato e ora, con obiettivi più o meno definiti e dichiarati, sta andando avanti in modo produttivo. Credo di essere arrivata al corso in una fase della mia vita, se non di cambiamento, almeno di movimento, nel senso che qualcosa stava mutando: qualche piccola cosa, un pensiero positivo, un'azione distruttiva quotidiana "risparmiata", una passeggiata al parco, la possibilità di studiare, di concentrarmi, l'apertura a cogliere ciò che potesse aumentare il mio "spazio d'espressione".

Poi il microcorso sulla devianza, con dei contenuti così vicini a noi seppur apparentemente lontani; c'era il sito a cui poter scrivere, potevamo interagire con i contenuti del corso, studiare in modo differente dal solito, metterci del nostro. Io l'ho fatto e il risultato è stato che, dando spazio a qualche qualità che possedevo, ho incominciato a costruire dentro me stessa ponti fra parti che non sapevo riconoscere e ho scoperto che ogni più piccola parte aveva dignità e diritto d'esserci e che, se ascoltata, poteva dirmi qualcosa.

Ho cominciato a pensare che questi risultati personali potessero anche costituire dei traguardi raggiungibili anche per i detenuti e per parti diverse di società. E' stato per me un grande e gratificante risultato che alcuni detenuti si siano sentiti stimolati da ciò che io scrivevo. Il tempo è passato, la comunicazione è andata avanti, gli stimoli sono aumentati perché più gente si è unita al dialogo. Ho portato la mia famiglia in carcere.

Il carcere, o meglio, i lavori dei detenuti e i contenuti del corso mi hanno permesso di parlare con me stessa e di me stessa, con la mia famiglia e senza far riferimento esplicitamente ad alcune mie intime difficoltà.

Ho potuto accettare l'aiuto degli altri per fare qualcosa che non avrei mai pensato a novembre di poter fare: impiegare le mie energie non per censurarmi, ma per costruire qualcosa di utile per me stessa e per gli altri, sentirmi parte di un gruppo e sentire la mia presenza importante per la vita del gruppo stesso; ho potuto esporre un lavoro in carcere davanti a tanta gente e con un microfono in mano, ho condiviso un mio pensiero sabato all'incontro (senza microfono!) ..e soprattutto è rinata la speranza di poter dare spazio all'espressione delle mie potenzialità.

E come si inserisce tutto ciò col rapporto col carcere? Quali sono gli obiettivi del gruppo esterno? Cosa siamo? Cosa diventeremo? Non posso dire di saperlo in maniera chiara e definita, non so nemmeno se fidarmi ancora delle mie conquiste, figuriamoci dire quale sia il progetto. Ci sono delle idee, ci sono le cose che abbiamo fatto, ci sono persone libere e detenute che vengono stimolate le une dalle altre a interrogarsi, a cercare, a scambiarsi esperienze, ci sono "pezzi" di società, "pezzi" di noi stessi che aspettano di trovare una loro collocazione, di mettersi fra loro in comunicazione, di arricchirsi a vicenda, di ricevere riconoscimento e dignità. Ci siamo noi.

All'Istituzione servono nero su bianco obiettivi, mete, mezzi, strumenti e modalità d'azione? Serve alla società definirci "gruppo terapeutico" piuttosto che "allievi psicologi", "futuri tirocinanti" o quant'altro? Serve a noi per andare avanti e vederci chiaro? E' questo ciò che ci salvaguarda dal rischio di scottarci?

Francesca, non sono polemica, te lo sto chiedendo, me lo sto chiedendo, lo sto chiedendo al gruppo. Vorrei capire. Secondo me, siamo per un verso potenziali strumenti risocializzanti, dall'altra persone a cui serve appropriarsi di strumenti sempre più affinati per agire in modo trasformativo tanto sulla realtà sociale quanto su quella interna dell'individuo. Di fatto è già successo che mettendoci in gioco, mettendo insieme risorse, limiti, esperienze diverse, producendo dei lavori scritti, facendo le interviste, incontrando i detenuti, scambiandoci i lavori, condividendo parti di noi stessi e della nostra vita, una parte di società libera si è messa in comunicazione con una parte di società detenuta; un piccolo gruppo di studenti ha unito le proprie forze e si ritrova per programmare, lavorare, fare il punto della situazione, interrogarsi ..chiedersi "a che pro?"; e soprattutto ogni membro dei due gruppi ne ha ricavato beneficio.

Sì, un gruppo esterno che "vive di se stesso e per se stesso", ma un gruppo che per il solo fatto di esserci favorisce la riflessione propria e quella di un altro gruppo di persone con il diritto, scontata la pena, di tornare a vivere da persone libere in una società che, oltre ad averli puniti, dovrebbe fornire loro strumenti per non continuare a distruggere se stessi e gli altri. Un gruppo che, per il fatto di essere composto da persone diverse con sensibilità e intelligenze diverse, ha la facoltà di riflettere criticamente sulla direzione in cui muoversi! Un gruppo che può coinvolgere nelle attività altre persone e che può diventare due gruppi, tre, quattro.. Un lavoro che può allargarsi e può dare la possibilità a più cittadini liberi e detenuti di appropriarsi di strumenti e di competenze sociali e personali, lavorando insieme.

Quel che succederà si vedrà strada facendo; si fa più fatica a mettere in moto una macchina che a mantenerla in corsa..

Ciao Francesca, ti ringrazio. Rimani nascosta se vuoi, ma non te ne andare.. visto che hai contribuito a far partire la macchina.