E' la prima volta che entro a "S. Vittore".
La giornata è caldissima. Il piazzale è libero e il cielo sereno. L'edificio si presenta in modo singolare, attraverso una grande porta che è una piccola entrata rispetto alle dimensioni delle mura. C'è uno spazio di mezzo, ombroso e tetro, che preannuncia il passaggio verso una realtà altra, un altro mondo.
Entrando in carcere, nessuno può restare completamente libero; è obbligatorio spogliarsi in parte della propria identità.
Sento due amiche parlare fra loro: "San Vittore ti cambia la vita".
Mentre salgo le scale, in fila, misurando il silenzio, mi giungono risate e parole lontane e sconosciute. La guardia che mi sta alle spalle ha l'aria di chi sa quale peso mi troverò sulle spalle all'uscita. Con una espressione del viso mi suggerisce coraggio. Si sarà reso conto che ne ho bisogno.
L'obiettivo della serie di convegni è mettere in relazione e permettere la comunicazione tra due mondi che vivono attualmente separati, quello carcerario e quello della società civile, questo nella convinzione che tanto le cose comuni e i punti di contatto quanto le differenze sostanziali e le diverse prospettive possono essere utili a migliorare la vita degli individui e a promuoverne una maggiore consapevolezza. Inoltre questi incontri sono uno strumento per far conoscere alla collettività cosa è un carcere e come ci si vive.
Le tematiche che vengono trattate sono rilevanti per le due parti in causa, diverso è il livello d'astrazione e il legame concreto con la realtà per ciascuna delle due. La trasgressione, la sfida rivestono, un po' per tutti, un ruolo centrale nel percorso della vita; per chi si scontra con la legge, queste assumono, a un certo punto, contorni tragici.
All'interno dell'istituzione è fondamentale la presenza di uno spazio d'espressione e di elaborazione, in cui alla persona sia data l'opportunità di riscoprire le ragioni e le spinte a trasgredire o a sfidare che hanno portato all'atto criminoso. Il parlare del proprio passato e il confrontare le diverse esperienze consente di collocare il proprio vissuto negativo entro confini più visibili, ritagliando angoli di libertà per la rinascita della stima di sé necessaria per apprendere nuove "istruzioni culturali", che sono i mezzi per rapportarsi nuovamente con il mondo, i suoi abitanti, le sue vittime. In questo modo diventa più facile leggere il presente in maniera adeguata e relazionarsi con se stessi e con gli altri in modo positivo.
Da quando sono uscito dal carcere ho l'impressione che la mia mancanza di libertà d'espressione sia stata resa più riconoscibile nel confronto con chi ne è privato fisicamente, in modo coercitivo. C'è qualcosa che soggettivamente sento di condividere con i detenuti. Un tiranno comune.
In un racconto di E. A. Poe, "William Wilson" e in uno scritto di Ivano la voce della coscienza si fa persecutoria: quali sono gli strumenti per farne una alleata della nostra parte irrazionale e istintiva? Quale voce, quale ruolo manca? Vorremmo che le nostre parole venissero accolte e orientate da un padre rimasto per troppo tempo assente. Per procedere, non è sufficiente avere il permesso di genitori tolleranti, non bastano le indicazioni di un padre fantasma.
Io non sono andato in carcere per far piacere a qualcuno o per una buona azione. L'ho fatto per me stesso. Per cercare me stesso. Per uscirne più cosciente della realtà e più ricco culturalmente e umanamente. Per confrontarmi con un luogo dove la libertà non esiste, con persone che vivono oggettivamente in una condizione più opprimente e misera della mia, come io la percepisco soggettivamente.
Ma cosa stiamo cercando di fare? Permettere ai detenuti di intrattenere una corrispondenza e un dialogo con degli studenti universitari? Permettere a questi una esperienza diretta con persone che la società ha condannato e fornire a quelli l'opportunità di socializzare e sentirsi partecipi di un progetto culturale? Rendere il carcere un luogo meno alieno ed emarginato dalla comunità? Attivare una collaborazione stabile per inaugurare ponti di comunicazione e spazi in cui allevare passioni e ideali? Vogliamo permettere a chi ha sbagliato di riflettere e contribuire ad evitare che si ripetano simili eventi? Vogliamo portare i giovani a conoscere da vicino le imperfezioni sociali e individuali che possono portare alla devianza?
Ma siamo in preda a un raptus? E dove lo mettiamo il profitto economico? Come rappresentiamo i sani e sacri valori del nostro paese? E la condanna, la colpa, la pena, il prezzo da pagare? Di questo passo dove vogliamo arrivare?
Cosa crediamo di raggiungere, un nuovo assetto di riconoscimento e dialogo fra vittime, carnefici e giudici? Per caso si crede pure di poter fare di un detenuto un soggetto attivo e creativo in senso sociale e culturale? Magari crediamo che possa esporre la propria esperienza nelle scuole a fini preventivi? Vogliamo forse sfidare un sistema che ci appartiene ma che sentiamo inadeguato? Vogliamo consentire una ricerca nel male di parti fondamentali e portanti della personalità umana? Dobbiamo forse restituire a chi ha trasgredito alle leggi la possibilità di costruirsi uno spazio d'espressione sottratto loro in passato o forse mai acquisito?
Pensiamo di poter imitare coloro che hanno lottato e combattono per superare e sconfiggere il pregiudizio, l'ignoranza e la menzogna?
Nella loro diversità, tutti gli interventi mi hanno coinvolto, mi sento dentro un lavoro da portare avanti, un cammino da proseguire, combattendo con e contro noi stessi.