La pena fra retribuzione e rieducazione

Alex Ingrassia

  03-04-2008

 

Come contributo alla 3° giornata del seminario sulla rieducazione, ritengo sia necessario affrontare il problema della pena, nell’ottica del binomio rieducazione-retribuzione, per mostrare come i due concetti non debbano necessariamente considerarsi antitetici, ma possano coesistere, e di fatto coesistano, nel nostro sistema.

Il concetto di retribuzione è stato utilizzato in relazione alla funzione della pena da fini pensatori come Kant ed Hegel, per affermare che all’azione che comporta un male per la collettività, la comunità deve rispondere con un male. È paradigmatico di questo modo di concepire la pena l’esempio dell’isola contenuto nella “Metafisica dei costumi” di Kant: anche se la comunità si sciogliesse il giorno dopo la commissione del reato, avrebbe il dovere etico di punire il soggetto. La risposta al male con il male trova, dunque, la propria funzione e la propria legittimazione nel dovere di punire per ristabilire l’equilibrio violato.

La teoria retribuzionista, oltre che superata dalle dottrine penalistiche, è sicuramente inconciliabile con la nostra Costituzione, che all’art. 27 prevede che “la pena deve tendere alla rieducazione”.

In concreto, però, non si può negare che la retribuzione non svolga un ruolo nella commisurazione in concreto della pena, sia detentiva, sia pecuniaria. Infatti, l’art. 133 c.p., fornendo al giudice i parametri attraverso i quali esercitare il suo potere discrezionale, divide i criteri in due ampie categorie, la gravità del reato al primo comma e la capacità a delinquere del reo al secondo. Soprattutto nel primo comma si nota il carattere retributivo della commisurazione della pena: il legislatore impone al giudice di valutare del reato il disvalore della condotta (n.1), il disvalore d’evento (n.2) e il disvalore d’intenzione ovvero il grado della colpa o l’intensità del dolo, e in conformità a tali parametri retribuire la condotta con un tot di pena.

Questo modello di commisurazione della pena è perfettamente in linea con la Costituzione, in cui si prevede che la responsabilità penale è personale: il computo della pena sulla base della gravità del fatto di reato costituisce così una garanzia per il reo e un obbligo per il giudice, limitandone la discrezionalità.

Si potrebbe affermare che la pena è quantitativamente retributiva, giacché ciascuno risponde solo e nei limiti della gravità del fatto commesso.

Al contempo, sulla pena così commisurata, s’innesta la finalità rieducativa. La pena, qualsiasi essa sia, ha come funzione essenziale quella di porre le condizioni per l’evoluzione dell’identità del reo, così da permettere il suo reinserimento nella società.

Si potrebbe affermare che la pena è qualitativamente rieducativa, giacché l’unico scopo che il legislatore riconosce alla pena è quello del reinserimento del reo.

In definitiva, la pena computata sulla gravità del fatto commesso, a tutela del reo contro pene indefinite o arbitrarie, trova il suo contenuto nella predisposizione degli strumenti per permettere a chi ha violato la legge di elaborare e prendere coscienza del reato e reinserirsi come cittadino. La pena incarna il duplice obbligo alla retribuzione e alla rieducazione, potendosi definire quantitativamente retributiva e qualitativamente rieducativa.