| GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE |
a cura di Livia | Verbale 30-05-2005 |
All’incontro di oggi sono presenti gli studenti di Giurisprudenza che collaborano col gruppo dallo scorso novembre. All’incontro è presente anche il dott. Francesco Cajani, Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Milano.
Durante il precedente incontro, a cui è stata invitata a partecipare la direttrice del carcere, dott.ssa Gloria Manzelli, gli studenti di Giurisprudenza avevano riassunto le loro ricerche sulla pena e sull’evoluzione della sua applicazione in diversi periodi storici e contesti culturali.
Nell’incontro di oggi Aparo chiede agli studenti di Giurisprudenza di cercare di evidenziare il divenire della concezione della pena e delle sue finalità.
Nella prima parte dell’incontro Aparo pone alcune domande sul senso della presenza degli studenti di Giurisprudenza al gruppo della trasgressione, insieme a detenuti e studenti di Psicologia.
Massimo: Il lavoro sulla punizione durerà un anno e mezzo circa, il convegno di giugno ne è una tappa, lavorare con la società esterna rintracciando i punti di contatto tra il dentro e il fuori, fra cittadini liberi e detenuti, fra uomini di legge, cittadini e trasgressori,porta ad un’evoluzione di ogni parte in gioco.
Armando: Noi detenuti abbiamo trasgredito la legge, il nostro si chiama gruppo della trasgressione e qual è la più grande trasgressione che possiamo fare se non lavorare con persone che domani saranno uomini di legge?
Aparo: Cosa si aspetta il gruppo dagli studenti di Giurisprudenza?
Enzo: Il lavoro congiunto porta alla crescita personale di ognuno. Le idee che i detenuti hanno dello Stato e della pena sono negative, lavorare insieme agli studenti di Giurisprudenza mi dà la possibilità di colmare vuoti e rabbie; per converso, per gli studenti di Giurisprudenza conoscere le esperienze dei detenuti dà una visione ulteriore rispetto a ciò che può essere letto sui libri.
Aparo: In che modo lo studio degli studenti di Giurisprudenza può essere utile a chi studia psicologia?
Giovanni e Domenico: Abbiamo attivato un dibattito culturale e psicologico sulla punizione. E’ utile trovare un linguaggio comune e un metodo comune per lavorare assieme allo stesso obiettivo.
Enzo e Gabriele: Studenti di Giurisprudenza e Psicologia hanno approcci diversi alla stessa materia. Lavorare assieme porta ad uno scambio di conoscenze.
Silvia e Cinzia: E utile per conoscere l’ideale della legge a cui fare riferimento. E viaggiare all’interno dei confini della legge.
Massimo e Giovanni: Per acquisire più strumenti per interpretare come si muovono i giuristi. E capire come confrontarsi con chi fa legge per aumentare la motivazione del detenuto ad evolversi.
Aparo: Bene! Cogliere il divenire della legge e le sue funzioni! A me sembra che la legge ricordi all’uomo che ha dei limiti con cui dialogare e confrontarsi e, per questo, possa essere intesa non solo come strumento per regolare i rapporti tra gli uomini della polis, cioè i cittadini, ma anche come strumento per diventare se stessi.
Walter: Secondo me è utile che gli studenti di Giurisprudenza lavorino con quelli di Psicologia per scoprire quale relazione può esserci tra la legge e la persona che ha sbagliato che è portatrice di vissuti ed esperienze.
Marta: Per scoprire che le legge è diversa da come spesso la viviamo e per applicare le scoperte alla professione che andremo a svolgere in futuro.
Aparo: Qual è il filo conduttore delle ricerche degli studenti di Giurisprudenza? Perché fare una ricerca storica quando il convegno ha come tema la pena e i protagonisti della punizione?
Tirelli: E’ utile il confronto delle ragioni dell’uomo (campo della psicologia) e delle ragioni della legge (campo del diritto), in quanto la pena ha come destinatari persone con un passato, un presente e un futuro. E’ importante che i protagonisti della punizione si interroghino e parlino assieme e non essere l’uno soggetto attivo, l’altro soggetto passivo. Il riferimento alla legge è fondamentale perché ciò che la legge dichiara è un punto di riferimento da ricordare.
Nella seconda parte dell’incontro il gruppo si interroga su cosa la società si aspetta faccia il condannato e cosa chi condanna è disposto ad investire per ottenere ciò che con la pena dichiara di volere ottenere.
Aparo: I punti su cui vorrei richiamare l’attenzione sono:
Gabriele: Mi sembra che col passare del tempo la pena chiede sempre di più, chiede al detenuto di capire il reato commesso e di rientrare nella società con meno rancore.
Nicola: A me sembra sia utile fare una distinzione:
Stefania: In generale ciò che si vuole ottenere con la pena è intimidire, fare prevenzione speciale, fare in modo che non vengano più compiuti reati e retribuire il male commesso. Poi ogni epoca si è servita di strumenti diversi.
Borasio: Ci sono diversi livelli di maturazione delle società nel modo di concepire e servirsi della pena e, di volta in volta, sono diverse le funzioni che una società vuole che la pena abbia. La maturazione della società è un processo lento, difficile e contraddittorio.
Enzo: Le contraddizioni non sono solo della società esterna, ma anche interne al carcere. Le contraddizioni sono dell’uomo prima di essere della società e il detenuto è il primo ad essere contraddittorio nel suo modo di agire e pensare ed essere cittadino.
Armando: A Nicola voglio dire che se la società smette di chiedere, io smetto di dare. E’ utile chiedere il perché del reato ma non basta questa domanda per crescere, occorre chiedere un insieme di cose affinché io possa evolvermi. Chiedere significare dare. Non tutti i modi di chiedere sono efficaci, non è facile dare.
Luca: Secondo me, dall’Illuminismo ad oggi si è puntato con la pena al reinserimento per l’utilità sociale del condannato (produttività) e per il contratto sociale (coinvolgimento di tutti). L’attenzione per me è da porre sull’uso degli strumenti. E poi mi chiedo in base a quali criteri si dice che siamo di fronte ad un progresso o ad un regresso.
Mimmo: La società chiede perché una persona è arrivata a delinquere. Il problema però non sono solo le domande poste mentre si sconta la pena, ma un’attenzione al fuori perché il detenuto, scontata la pena, ha pochi punti di riferimento all’esterno ed è facile per lui tornare a sbagliare.
Cajani: Mi sembra significativo come due persone che studiano gli stessi testi (Nicola e Gabriele) diano risposte diverse alla stessa domanda! Per prepararmi a questo incontro anch’io ho riguardato i testi su cui ho studiato: da Platone ad oggi la società ha sempre chiesto la stessa cosa, ovvero che la pena abbia una funzione correttiva e deterrente. Ciò che si chiede è: “Correggiti e non farlo più!” Col tempo sono cambiate le etichette con cui sono indicati questi concetti ma la richiesta è rimasta invariata. Il problema, a mio avviso, è che la richiesta rimane qualcosa di vuoto oppure di non ancora esplorato.
La Costituzione dichiara che la pena “tende alla rieducazione” e ciò significa che la rieducazione non è un obbligo per il punito, io vorrei capire se per i Magistrati la rieducazione è un obbligo.
Sant’Agostino, nell’epistola 95 pone diverse domande ancora attuali:
Danilo: Credo sia importante oggi ragionare sulla pena in modo differente rispetto ad un tempo. Per ogni epoca sono diverse le variabili da considerare. Oggi la tossicodipendenza dilaga, ognuno di noi può esserne coinvolto o avere un figlio che ne sarà coinvolto ed è fondamentale interrogarsi sulla funzione della pena.
Georgiev: La società chiede che il detenuto non commetta più reati e operi una revisione critica sul proprio comportamento.
Aparo: Ci deve essere qualche correlazione fra il diverso modo di attuare la pena e quello che ci si attende dall’individuo al quale tale pena viene imposta. Se da un lato è vero che da sempre e ovunque si punisce per ottenere obbedienza alle norme, dall’altro non si può ignorare che la risposta alla violazione della norma varia nelle diverse società; né si può ignorare che dai somari ci si aspetta solo che procedano portando le bisacce del padrone e che dai figli (nella migliore delle ipotesi) ci si aspetta che si approprino di una lettura progressivamente più ampia della realtà.
A me sembra che i detenuti del gruppo della trasgressione, per effetto dell’impegno che dura da anni e per la collaborazione fra studenti e detenuti, siano giunti ad alcune posizioni che risultano più avanzate rispetto a quello che l’attuazione della pena prevede oggi in Italia e che risultano del tutto trasgressive rispetto alla cultura media del carcerato: “la trasgressione maggiore che noi stiamo facendo è lavorare con voi” (Armando Xjfai).
I detenuti cominciano a dire con le loro parole che l’unica ragione per la quale una persona può rinunciare ai “benefici del comportamento deviante” (cioè l’illusione di avere un proprio potere sulla realtà o l’illusione di riuscire a vivere in pace con la propria impotenza) consiste nell’avere la possibilità e nel sentirsi sostenuti nella propria spinta ad evolversi: “se non mi si chiede, non mi verrà spontaneo nemmeno dare” (Armando Xjfai).
Se rieducare vuol dire insegnare a stare dentro i binari della norma, la persona rieducata si sentirà ingabbiata da una norma fatta da altri e definita a beneficio degli altri (forse il “Contratto sociale” dell’Illuminismo, non teneva abbastanza conto del fatto che non tutti i membri di una collettività sentono di poter aderire pariteticamente allo stesso contratto perché non tutti attingono pariteticamente ai beni materiali e culturali della collettività).
Probabilmente, l’unica via per fare proprio il valore della legge consiste nel poter sentire che chi la professa, dentro e fuori dal carcere, tiene alla tua evoluzione più che alla tua obbedienza.
Agli studenti di giurisprudenza ripropongo la domanda: nel corso della storia, le diverse società cosa hanno cercato di ottenere con la pena? E, più in particolare, come ci si aspetta che l’uomo punito riesca a mettere a frutto la risposta penale della società alla trasgressione?
Maria Cristina: Nella cultura Greca e Romana i valori sono tramandati per via orale, lo Stato chiede il rispetto di modelli di comportamento proposti. Non si parla ancora di sistema giuridico.
Stefania: Mi sembra che la pena sia espressione di un’esigenza della società più che un’attesa verso il reo. Nel Medio Evo la pena è una risposta al reato, la società mi sembra non chiedere nulla al condannato. La rieducazione rimane spesso un termine astratto perché non c’è accordo tra le esigenze della società e quelle del detenuto.
Cinzia: Nell’Illuminismo è stata introdotta la divisione dei poteri, la legge a cui si deve attenere la società è uguale per tutti i suoi membri. Con Rousseau viene sottoscritto da tutti il contratto sociale; se una persona trasgredisce, viene costretta alla libertà definita dalle regole identificate dalla maggioranza sociale. La società chiede dunque di essere responsabile e di mantenere il contatto con gli altri uomini.
Alessandra: Nelle regimi totalitari non si parla di società organizzata, chi ha in mano il potere lo ha preso con la forza ed esercita un controllo totale sul popolo e sui prigionieri imponendo la loro sottomissione, tanto che poi si è parlato di crimini contro l’umanità.
Gabriele: Lo Stato Tedesco chiede al detenuto uno sforzo per ripartire, di capire il senso del reato, di non ricadere nell'errore, di non covare rancore, soprattutto di rientrare al più presto nella società. La società, da parte sua, si impegna a punire poco col carcere, a privilegiare la pena pecuniaria su quella detentiva, a sospendere le pene se viene valutata la possibilità di un reinserimento favorevole. Il tutto con lo scopo di fare prevenzione speciale e generale e ridurre gli effetti desocializzanti del carcere.
Domenico: Con la pena si risponde alla violazione della regola, la pena dovrebbe portare la persona a non commettere più reati. In Svezia e in America si persegue un ideale rieducativo e riabilitativo, si cerca di agire sulla personalità del detenuto.
Armando: Non ho capito con quali modalità le diverse società chiedono ciò che vogliono ottenere? Io detenuto come faccio a non provare rancore? Se non trovo domande, non posso dare risposte.
Gabriele: Sto facendo la tesi sul teatro in carcere e l’altro giorno ho parlato a lungo con un ex detenuto, Romeo Martel, che si è accostato al teatro in carcere e, una volta libero, ha continuato a servirsi delle capacità acquisite in carcere. Romeo ha utilizzato uno strumento che gli è stato dato dentro per il fuori; oggi è un cittadino libero che lavora e fa teatro andando in tournee non solo in Italia ma anche all’estero.
Aparo: Esistono realtà culturali nelle quali all’individuo che trasgredisce si chiede attenersi alle norme ma non gli si chiede una sua evoluzione, né ci si muove per promuoverla; ne esistono altre che chiedono a chi ha derogato la legge un’evoluzione individuale, gli chiedono di acquisire la capacità di rapportarsi alla norma in modo rinnovato, di farla propria più che di obbedirle, di fare i conti col fatto che si è sbagliato, di mantenere i rapporti sociali e di comprendere la loro importanza.
La domanda su cosa viene chiesto al detenuto intende evidenziare dove, in quali circostanze, in quali paesi, in quali epoche, in quali relazioni, alla persona viene chiesto di esprimersi e in quali viene chiesto di obbedire e -ancora più drasticamente- in quali circostanze viene chiesto alla persona di acquisire strumenti, competenze da spendere poi nella vita e in quali circostanze, invece, non viene chiesto alla persona nient'altro che di lasciar passare il tempo della pena facendo il meno attrito possibile con chi vigila sull’esecuzione della pena.
Tirelli: Per lungo tempo la società ha imposto la pena a propria tutela, ma al detenuto non chiedeva niente se non di sottostare alla pena. Nel corso della storia sono avvenuti dei cambiamenti nel modo di concepire la pena: lo stato ad un certo punto si è impegnato ad offrire strumenti, ha offerto una collaborazione ai fini della rieducazione del condannato, ha chiesto cioè al detenuto di non interrompere la relazione ma di aderire alla proposta rieducativa. Gli intenti però si scontrano con la realtà dei fatti, la modalità di esecuzione della pena non consente allo stato di adempiere alla promessa fatta né al detenuto di mantenere viva la relazione.
L’incontro si chiude con l’impegno a riflettere sulle domande poste durante l’incontro. L’appuntamento con gli studenti di Giurisprudenza per un ulteriore confronto è fissato prima del convegno del 30 giugno.