Il giovedì dopo l'incontro con Patrizia Capalbo, Emilia Patruno e io abbiamo voluto riportare al "Gruppo della trasgressione" le poche frasi che lei, dialogando quasi senza accorgersene con le sue fantasie, aveva pronunciato. Le avevamo chiesto "Cosa immagina che farebbe se potesse trovarsi, da sola, in una stanza con chi ha ucciso suo fratello". Aveva risposto "Sì, mi è capitato di immaginare un dialogo con queste persone. Ma prima di parlare, istintivamente, li vorrei graffiare, li prenderei per il bavero della giacca; mi immagino di scuoterli, di chiedere loro perché
" Poi, quasi come se riferisse le parole di una voce interna, aggiunge "Mi immagino
come una lezione, immagino che vorrei guardarlo negli occhi a lungo, anche per un giorno intero, guardarlo come mi guardava mio padre quando avevo combinato qualcosa
mi viene in mente come mi sentivo piccola quando mio padre mi guardava in certi momenti
".
Quando pongo la domanda al gruppo, tutti sono molto attenti.
Come mai -chiedo- la ragazza ha dato questa risposta?
Come mai ha chiamato in causa il padre, evocando la scena del suo sguardo severo?
Come mai il gestore di un negozio della zona aveva sommariamente proposto di eliminare fisicamente gli assassini, mentre la sorella aveva concluso la sua risposta dicendo:"non so se chi ha ucciso mio fratello ha un figlio, una persona che ama o che lo ami, non so se il padre dell'assassino di Ottavio ha avuto per lui lo stesso peso che mio padre ha avuto nella mia vita
è come se mi volessi sostituire a suo padre per fare in modo che lui si senta piccolo
che si renda conto di quello che ha fatto
".
Tutti i detenuti e le persone libere che sono ormai parte stabile del gruppo avvertono che nella risposta di Patrizia c'è qualcosa di singolare. Si fa a gara a prendere la parola. Non sorprende l'intervento del barista, che tutti giudicano superficiale, anche se comprensibile; si osserva che le sue parole sono quelle di una persona che è stata toccata solo marginalmente dall'accaduto; per lui -si dice- gli assassini sono degli estranei; egli non sa e non vuol sapere nulla della loro storia; ha solo bisogno di tenerli lontani.
La riflessione sulle affermazioni della ragazza, invece, procede con cautela; si cerca fra le sue parole ciò che sembra scontato esse debbano contenere: la rabbia, il rancore, la voglia di vendicarsi; ma si fatica a trovarlo.
Romeo, un Pugliese, cresciuto con un calcio nel sedere per ogni martellata che non andava a segno sull'incudine, suggerisce che forse lei, da piccola, non ha mai avuto delle sofferenze che andassero al di là dei rimbrotti dei genitori per le sue marachelle e -proprio per questo- immagina che la peggiore sofferenza per lei possa essere costituita dal rimprovero paterno.
Alejandro, un Argentino, la cui voce burbera cambia radicalmente timbro quando si rivolge a un Cinese assai più giovane di lui, ma che sente ancora gli occhi taglienti di suo padre puntati addosso, ipotizza che il padre di Patrizia possa essere stato per lei una figura tanto autoritaria da farla tremare di paura ogni volta che l'ammoniva.
Altri ancora si chiedono se Patrizia -di fronte a una giornalista e a uno psicologo- sia stata veramente sincera, se non sia stata condizionata dal desiderio di apparire persona più nobile e clemente di quanto il comprensibile rancore verso gli assassini le consenta di sentirsi; non si esclude, infine, che la sua risposta -troppo dolce per sembrare sincera- possa dipendere dalla paura di ritorsioni da parte dei rapinatori.
Ma il giro di interventi non è ancora finito e il moderatore ha un bel da fare ad amministrarli. Un signore ipotizza che a Patrizia venga in mente l'immagine forte del padre perché -adesso che si sente abbandonata dalle istituzioni- è l'unica che possa garantirle un giudizio autorevole ed equilibrato.
Una voce marcatamente sudamericana, che mescola risate improvvise e profondità marine, propone invece che Patrizia vuol dare una mano a chi le ha arrecato un dolore così grave; è per questo -dice- che la ragazza vuol guardare chi le ha ucciso il fratello nel modo in cui suo padre guardava lei. E aggiunge: "Forse la ragazza ha capito che chi ha ucciso non ha avuto un padre come il suo, che l'omicida non ha mai avuto la mano che suo padre le tendeva con lo sguardo quando lei sbagliava".
La strada è ormai aperta e l'intervento non rimane isolato.
Un uomo, oggi dolorosamente consapevole di avere ingabbiato, con i suoi reati, anche una parte della sua paternità, osserva che un padre può anche ammonire, mai umiliare! "Non è possibile che il padre della ragazza la rimproverasse per schiacciarla, per annientarla; se così fosse stato, lei non potrebbe avere oggi l'equilibrio necessario per pronunciare parole tanto dolci".
Interviene un Siciliano, il cui pensiero, di solito, insegue i concetti come se giocasse a mosca-cieca, ma centra il bersaglio quando gli altri gli testimoniano con lo sguardo la voglia di ascoltarlo. Parte, barcolla, annaspa, ma gli altri sorridono e continuano a guardarlo, e lui: "Non ci sono menzogne, non ci sono paure in quello che dice la ragazza; ogni parola racconta un'emozione, ogni emozione è una parte di verità".
Qualche giorno dopo l'ultimo incontro del gruppo, siamo tornati da Patrizia Capalbo; ho voluto riferirle alcuni commenti del gruppo.
E fra questi: "Chi strappa un pezzo del nostro cuore ci costringe ad una dolorosa conversazione che spesso va avanti fino a tarda sera e che ricomincia con le prime luci dell'alba. Giorno dopo giorno, il nemico ci diventa sempre meno estraneo".
E lei, allarmata: "Qualcuno vuol farmi dire che io voglio tendere la mano a chi ha ucciso Ottavio, lei vuole portarmi a dire che io posso capirlo! Invece, io voglio che lui venga preso, vorrei che lui si costituisse e si rendesse conto del dolore dato a chi sopravvive".
Con cautela, le dico che forse le sembra di tradire il fratello nel vedersi attribuire il desiderio di capire chi gli ha tolto la vita. E tuttavia, il fatto che lei abbia ricordato lo sguardo del padre come il modo migliore per punire chi ha ucciso Ottavio ha fatto sì che il gruppo concludesse che "Quando i figli giungono ad amare la vita, è ragionevole pensare che lo sguardo severo dei genitori non abbia avuto come fine preminente la punizione, ma l'invito a crescere e a responsabilizzarsi".
Ci salutiamo dicendoci che forse è ancora troppo presto per venire in carcere al "Gruppo della trasgressione".
Forse, fra qualche tempo, anche lei, come già Luciano Paolucci, avrà voglia di parlare con quei detenuti che vorranno sostenere il suo sguardo.