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"Un
senso di rabbia incredibile". Ecco, secondo la sorella del tabaccaio
ucciso a Milano all'inizio dell'anno, la prima sensazione di chi sopravvive
a un simile gesto di violenza. E poi le ulteriori riflessioni: l'importanza
del denaro, il peso della famiglia, l'indifferenza delle istituzioni,
la voglia di vendetta degli amici e dei conoscenti.
Dopo?
Un senso di rabbia incredibile. Quella sera ero fuori, senza cellulare.
Ho acceso la Tv, così, per farmi compagnia, e ho saputo la notizia
dal telegiornale. Ho sentito il nome di mio fratello, ho visto il mio
bar". La notizia, la terribile notizia, è la morte di suo
fratello Ottavio.
Patrizia
Capalbo è una bella ragazza. Magrolina, non alta, uno scricciolo.
Però quando parla di suo fratello e di quello che è successo,
si trasforma. Ha una forza incredibile, sembra fatta di ferro. Con Ottavio,
morto a 34 anni durante una rapina in via Derna (lo zio è rimasto
ferito), racconta che aveva un rapporto speciale. Si volevano un bene
dell'anima. E dice che era una grande persona: buono, allegro, generoso.
Fidanzato, si sarebbe dovuto sposare a marzo. "Da una parte mi
dico: meno male che non c'ero, perché mi sarei buttata anch'io
per fargli da scudo; dall'altra avrei voluto vivere quei 40 secondi
per capire che cos'è successo veramente".
Patrizia Capalbo e il fratello Ottavio
La rapina
di via Derna è facile da ricordare: è stata l'ultima di
quella serie di violenze urbane che i primi di gennaio di quest'anno
ha fatto gridare al "Far West a Milano". Il bar di via Derna
è fatto a L, da una parte il bancone del caffè, dall'altra
le sigarette e l'Enalotto. Ottavio Capalbo è stato freddato dopo
essere stato rapinato (20 milioni) perché ha tentato di reagire,
perché forse ha riconosciuto i rapinatori, cercando di togliere
a uno di loro il passamontagna.
La rapina
ancora oggi non è stata ricostruita nei dettagli. I colpevoli
sono liberi. L'unica cosa certa è che Ottavio credeva di avere
davanti due giovani balordi armati di pistole giocattolo. Ma i rapinatori,
certamente italiani, che hanno fatto irruzione nel locale non giocavano
affatto: impugnavano pistole vere, una a tamburo, che hanno usato al
primo cenno di reazione. Adesso Patrizia ha voglia di parlare di suo
fratello. E pur rifiutando di incontrare, per il momento, a San Vittore
quel gruppo di detenuti che periodicamente "cerca" le vittime
per riflettere e per capire, ha voglia di mandare un messaggio preciso.
Un faccia a faccia, dice, è difficile, oggi. Il dolore è
troppo fresco, troppo accecante. Ma un messaggio, Patrizia Capalbo,
da donna forte qual è, lo manda lo stesso.
Le capita
di pensare a chi ha ucciso suo fratello?
"Sì. E provo dolore, rabbia, impotenza. No, non sono per
la pena di morte, ho rispetto per la vita umana. Al momento, ti viene
da dire: ti prendo e ti scanno; ma poi, più che vederli sulla
sedia elettrica, più che un'iniezione, vorresti un castigo. Per
sempre. Che se ne stiano in carcere tutta la vita. Essere sicura che
ci sono due in meno in circolazione a premere il grilletto. Perché
anche se prendessero 30 anni, io tra 30 anni mio fratello lo ricorderò
come adesso. Bisognerebbe fare come in America: hanno tolto una vita
alla società, devono risarcirla. Devono costruire strade, fare
qualcosa, lavorare".
Ma se prendessero quei due rapinatori, se lei li avesse davanti,
che cosa farebbe?
"Mi immagino Come una lezione. Mi viene in mente come
mi sentivo quando mio padre mi dava un ceffone, che mi feriva più
di tremila parole. Come mi guardava in certi momenti. Non so se chi
ha ucciso mio fratello ha un figlio, o una moglie... Se il padre dell'assassino
di Ottavio ha avuto lo stesso peso che ha avuto mio padre per me...
vorrei sostituirmi a qualcuno che lui possa temere, perché si
senta piccolo. Perché lui, l'assassino, "è"
piccolo, un piccolo uomo. Forse solo sentendosi dire certe cose da una
persona che ha amato moltissimo, potrebbe capire. Oppure potrei passare
una intera giornata anche zitta per capire che persona è. In
silenzio. Poi lo riconsegnerei alla polizia perché ogni giorno
che passa deve capire quello che ha fatto. Lui non sa quello che ha
fatto. Ma una parte di me è morta con mio fratello. La vera pena,
per il reo, viene da dentro, dal rimorso di tutti i giorni".
Perché,
secondo lei, uno fa una cosa del genere?
"Bisogna vedere come ha vissuto. Una come me, cresciuta in una
famiglia one sta e di gente che si vuole bene, non arriverebbe mai a
fare una rapina, anche se dovesse mangiare pane e ci polla. Però
capisco che quando non c'è lavoro, e poi sai che con 1.600 lire
potresti diventare miliardario Intendiamoci, non voglio sputare nel
piatto dove mangio: l'Enalotto è il nostro lavoro, però
si insiste troppo sul denaro, sull'importanza del denaro. Uno diventa
sbandato anche se non vuole, perché c'è chi guadagna miliardi
e chi niente. Non c'è lavoro per tutti, non c'è speranza.
Lo Stato ti dice, praticamente: se non hai lavoro, arrangiati. Non c'è
un giovane che faccia il lavoro per cui ha studiato".
Che segnali ha avuto dalle istituzioni?
"Ho avuto dei segnali positivi dalla questura, dai commercianti,
dal sindaco. E da tanti cittadini singoli. Di aiuto ne ho avuto, dalla
città. Mi sembra che qualcosa abbia mosso, la morte di Ottavio.
È da Roma che non ho sentito nessuno. Il signor D'Alema è
venuto due volte a Milano, ma non si è degnato neppure di farmi
una telefonata. Dicono: non vi dovete fare giustizia da soli, non dovete
fare le ronde... Va bene, ma le istituzioni devono fare qualcosa, devono
far capire che ci sono. Sì, abbiamo più spesso la pattuglia
della polizia in zona, metteranno più lampioni in largo Tel Aviv.
Vorrei che non fosse solo una cosa che è stata, che è
passata. Vorrei che capissero quant'è devastante. Nel nostro
quartiere, oggi, c'è una tensione terribile. Se prendessero uno
scippatore in zona, sono certa che lo lincerebbero. Qui, la gente, si
sente abbandonata".
Emilia Patruno
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