Il dono

Sofia Lorefice

  15-03-2007
 

Di ritorno dal workshop fra scout e Gruppo della trasgressione, colpita dalle riflessioni di domenica mattina sulla importanza di una relazione severa e bene orientata per risanare la frattura fra reo in stato di detenzione e corpo sociale, porto qualche mia considerazione e aggiungo qualche domanda.

L’uomo che sbaglia non ha bisogno né di un intervento tanto duro da lasciarlo senza speranza di recupero, né di un intervento troppo generoso o compassionevole che lo allontani dal sano tormento del proprio errore. Occorre che qualcuno gli accordi fiducia quanto basta per non farlo sentire abbandonato e perduto, ma non fino al punto da giustificarlo o permettergli di autogiustificarsi. E’ una questione di misura, non serve essere né crudeli né buoni, occorre trovare il giusto equilibrio, ma quanto è difficile!
 
Nella scherma si dice che la spada è come una rondine, se la stringi troppo la uccidi, se non la stringi abbastanza vola via. Credo sia utile ricordarsene di fronte alla grossa spada che la statua della Giustizia, assisa al cuore del tribunale di Milano, tiene il mano.

Occorre offrire una possibilità, consegnare a colui che sbaglia la promessa di potersi salvare, ma occorre che la promessa non sia dolce, non sia facile né confortevole. Non serve alleviare la sofferenza, renderla più sopportabile o più comoda, occorre darle un senso.
 
La distanza è importante, un’eccessiva vicinanza soffoca il potere soterico della solitudine, il respiro affannoso di chi da solo affronta il proprio errore, la maschera intima che si indossa o si toglie a seconda dei casi, quando ci si ritrova soli con se stessi, con la testa poggiata sul cuscino per affrontare le proprie domande.

Eppure chi sbaglia è debole e smarrito e non può essere abbandonato a se stesso; è importante che qualcuno da lontano vegli su di lui, quasi senza che chi ha sbagliato se ne accorga; ma che non sia troppo lontano da non riuscire a sostenere le sue debolezze e le sue paure, perché è grande il rischio che chi è smarrito si perda.
 
Il Dott. Aparo ha insistito sull’inutilità e la nocività d’essere soltanto “buoni” con chi sbaglia. Nella vita, prima che in carcere, credo che questo sia un errore dei più frequenti, tra un padre e un figlio, tra un figlio e un padre, tra due amici, in una coppia, spesso si crede di fare un grande gesto d’amore, confondendo la gratuità del perdono con la concessione comoda e benevola di un finto eroico gesto di comprensione. Svendere il perdono a chi non lo cerca, offrire l’abbraccio a chi è pronto a soffocare di nuovo, è questa l’ingenuità più stupida, il sacrificio più inutile: è cosi sottile il confine che passa tra la bontà inutile e la crudeltà nociva!
 
Per me questo equilibrio è l’atteggiamento più difficile da raggiungere di fronte a una persona che sbaglia, troppo forti sono le due tentazioni: la prima, quella crudele e vile, porta a schiacciare e umiliare lo sciagurato nel fondo del suo errore; la seconda tentazione, quella stupidamente buona, porta invece a corrergli incontro, a inseguirlo nella notte del suo errore, a giustificarlo e ad abbracciarlo nella vana e presuntuosa speranza di salvarlo.
 
Se la libertà non è qualcosa che possa essere concessa o tolta, forse non esiste punizione né dono che possa liberare il cuore dell’uomo quanto una conquista solitaria; forse non servono premi né punizioni, ma strumenti con cui liberarsi.

Ancora uno stimolo dal workshop: “forse un sogno irraggiungibile può essere una maschera”. Penso proprio di si, a volte il nostro desiderio d’essere come non siamo si sostituisce a chi siamo davvero, ci costruiamo un modello cui vorremmo corrispondere, cominciamo a comportarci in un modo innaturale, forzato, c’innamoriamo del nostro sogno, che quanto più è irraggiungibile tanto più ci affascina. Cominciamo a tradire noi stessi, poi le persone che ci amano, dubitiamo di noi e di loro, mentiamo, fingiamo, re-citiamo. Restiamo aggrappati al sogno-maschera che non riusciamo a raggiungere, costruiamo dei modelli predefiniti di persone che nel nostro sogno vorremmo avere vicine, siamo continuamente delusi dalle persone vere che ci stanno accanto perché non rientrano nel nostro modello, ci disprezziamo perché l’idea che abbiamo di noi stessi non rientra nel nostro disegno.

Un dolore sordo comincia a farsi largo, col tempo tutto ciò che è vero ci viene in odio, sembra sempre insufficiente rispetto al sogno, e iniziamo a tradire e a tradirci, non godiamo più di nulla, non c’è serenità, perdiamo autenticità, smarriamo la strada fra parole vuote.

E’ difficile a volte reggere la libertà di essere se stessi, capacitarsi che a qualcuno interessi l’essere imperfetto che siamo, tollerare che altri possano apprezzarci e amarci proprio per quelle debolezze che il sogno-maschera voleva nascondere. Forse anche in questo caso occorre che qualcuno stia né troppo vicino né troppo lontano, fiducioso abbastanza in ciò che teniamo nascosto dalla maschera, severo abbastanza da non accontentarsi della nostra recita.

Probabilmente, nascosta fra le pieghe del delirio onnipotente di chi abusa della fragilità altrui e dietro i colori ammiccanti della maschera con cui si cerca di dissimulare la propria fragilità, c’è una analoga claudicante domanda di strumenti per conquistare la propria libertà. E se la domanda non è ancora nata, occorre trovare il modo di farla nascere.