Detenuti e studenti. InsiemeIn un carcere, per parlare di rabbia e dolore. | |
Stefania Rossotti | 16-06-2004 |
Venticinque detenuti, altrettanti studenti. Si incontrano, due volte la settimana, nel carcere milanese di San Vittore. Parlano di quello che li ha condotti sin lì: la spinta – così giovane e così potente – della trasgressione. Si raccontano, si provocano, si riconoscono: trovano e cercano punti di contatto. Fra storie di devianza e vite di quotidiano disagio giovanile. Fra “dentro” e “fuori” dal carcere e da vite sbagliate.
E’ una storia piccola (25 carcerati su 50 mila che vuoi che sia?) eppure forte. Avvicinarla vuol dire correre il rischio di un disorientamento: fra il dentro e il fuori, il prima e il dopo, il sogno e l’incubo. I piani si confondono perché il luogo di incontro è uno solo, ed è racchiuso in quella parola: trasgressione. Ci si trova tutti qui, in questa parola. Che per i ragazzi “fuori” significa possibilità, sfida. Per quelli “dentro” vuol dire condanna. Per tutti è il rischio di non diventare mai quello che si è davvero. Di perdersi.
La storia comincia in carcere. Uno psicologo, Angelo Aparo, un gruppo di detenuti e il bisogno di parlare della deriva che il ha condotti fin lì. Poi la decisione di cercare punti di contatto con il mondo di fuori, con i ragazzi di una scuola superiore (l’Istituto tecnico di Carate in provincia di Milano). Parole che si incontrano nelle riunioni bisettimanali in carcere e poi si ritrovano nella libertà di un sito (www.trasgressione.net).
Dove vogliono arrivare? “Chiariamo: questo non è un gruppo di redenzione”, dice Aparo. “I detenuti che ne fanno parte non chiedono il perdono, non tentano di giustificarsi, non cercano alibi né vie di fuga dalle proprie responsabilità. L’obiettivo non è salvare chi sta dentro, ma semmai chi sta fuori. Entrando negli svincoli di certe vite sbagliate: nel punto esatto in cui la trasgressione prende la sua deriva tragica. Per capire come e quando certi sbagli siano più probabili. Il gruppo della trasgressione chiede alla società di dialogare con chi la trasgressione l’ha agita in modo, a volte, devastante per gli altri e per sé”.
Parlare con i ragazzi di fuori, quelli per cui la trasgressione è una alternativa alla fatica di crescere. “Abbiamo scelto di lavorare con una scuola. Perché lì dentro la vita da vivere è ancora moltissima”, spiega Aparo. “Per chi sta in carcere la tragedia si è già compiuta. E dunque resta per sempre, è incancellabile. Adesso per loro è il momento della responsabilità, il tempo di costruire il resto della vita con quel che rimane”.
Oggi sono i detenuti a raggiungere gli studenti, nella scuola di Carate. Sono arrivati insieme a sei guardie carcerarie, in tre: Fabio, Diego e Dino. Ci avviciniamo per parlare con loro. Dino alza lo sguardo su un agente e chiede: “Possiamo?”. Una domanda che sembra una manetta ai polsi, una catena che chiede di essere sciolta. La guardia fa un cenno: possiamo parlare.
Cominciamo da Dino, detenuto dal 1991, condannato a 30 anni per una serie di rapine. Dino che, appena sceso dal cellulare, è andato a baciare sua madre: lei lo stava aspettando in un angolo e gli ha accarezzato le guance con le mani bianche.
Dino dice: “Quando sento gli studenti parlare, rivedo me stesso. Provo le emozioni di prima, le emozioni di “fuori”: la rabbia, la confusione, la distruttività, la voglia di fare qualcosa e il non saper dove andare. Questo riconoscermi negli altri è un biglietto di andata e ritorno. Mi sembra di poter andare avanti e indietro nel mio passato e nel mio presente, nella vita di un altro e poi di nuovo nella mia, nei sentimenti di chi sta dentro e in quelli di chi sta fuori dal carcere. Andare e tornare: un movimento vitale, impensabile nella fissità delle ore del carcere, nell’eternità della pena”.
Dopo di lui, Diego: in carcere per un omicidio. Dice che il lavoro con il gruppo gli ha “sbloccato” qualcosa. Qualcosa che lo teneva prigioniero dal di dentro. E ricorda: “Quando i ragazzi venivano in carcere, le prime volte, avevano paura. Paura di noi. La fine della loro paura è stato il primo sollievo.”
Fabio ha gli occhi chiari e uno sguardo mite, che rimane attento anche quando si abbassa a guardare le mani. Uno sguardo senza pace. Dice: “Mi scusi, sono confuso, oggi è la prima volta. La prima volta che esco dopo sette anni. Ho ucciso un ragazzo, sono stato condannato a sedici anni di carcere, me ne mancano nove”. Fa una pausa e aggiunge: “Mi ero dimenticato il profumo dei fiori”. Quanti anni ha? “Ventisei. E ho paura”. Di che cosa? “Di non poter più essere accettato. Per molto tempo ho pensato che nessuno avrebbe potuto accogliermi dopo quello che avevo fatto. Poi ho incontrato il gruppo e Antonella”.
Antonella: a lei hanno ammazzato il padre. Frequentava il gruppo di San Vittore da tempo e nessuno sapeva quello che le era successo. Del resto, in tutto il suo mondo, a saperlo erano pochissimi. Antonella non ne parlava mai. “Non riuscivo a dirlo, avevo paura degli altri, del loro giudizio, della loro pena”, racconta.
Poi in una riunione in carcere, la verità è uscita: liberatoria, potente. “Quel giorno avevamo invitato la moglie e la figlia di un gioielliere ucciso durante la rapina”, racconta Aparo. “Di fronte al loro dolore, anche Antonella è riuscita a parlare di sé. E a diventare il ponte fra l’angoscia di chi ha subito e quella di chi ha agito la violenza”.
Antonella dice di dover molto a Fabio: “Io e lui abbiamo molto in comune: abbiamo sperimentato la stessa paura dell’abbandono da parte del mondo. Su tutti e due pesa l’incubo di quel giorno. Il giorno in cui Fabio ha ucciso un ragazzo fuori dalla discoteca, il giorno in cui mio padre è stato ammazzato da chissà chi. Il tempo che è passato ha accumulato su di noi strati di dolore e di paura. Mi sono trovata sepolta sotto una corazza che mi teneva prigioniera. Come prigioniero è Fabio: dell’angoscia per quello che ha compiuto. Sul tavolo della trasgressione abbiamo messo, insieme, i nostri sensi di colpa e le nostre ansie: lui stava dall’altra parte eppure mi è così vicino.
C’è tanto di noi, lì dentro. Tanto di quello che abbiamo e tanto di quello che ci manca. C’è Enzo, per esempio, condannato a trent’anni e padre di due bambini. Ha voluto a tutti i costi che il gruppo si occupasse di genitori e figli. Dice che vuol trovare il modo di aiutare i suoi bambini a crescere, di essere con loro anche se sta dentro. Credo che mio padre non si sia mai posto questo problema. Forse non ne ha avuto il tempo, forse non l’avrebbe fatto mai”.
Una delle tante domande senza risposta: quelle a cui il gruppo dedica tempo ed energie. Sergio, un ex detenuto che ha fatto parte del gruppo della trasgressione, spiega: “Il carcere ti costringe a fare come i vecchi, che sono silenziosi perché stanno ascoltando tutte le domande a cui non hanno mai dato risposte”.
Quelle che Fabio promette a se stesso quando, prima di andarsene, dice: “Tremo dalla vergogna, voglio essere parte di voi senza dimenticare quello che ho fatto; lo porto con me, mi toglie il sorriso. Vorrei dirvi che, in carcere, il rimorso c’è ed è pesante. E ci tiene lontano dagli altri. Io non so se riesco a spiegarvi il dolore che si prova quando ci si tiene fuori. Tutti abbiamo bisogno di un posto tra le persone: cercherò di essere uno di voi, senza dimenticarmi di quello che ho fatto”.