Ai miei compagni di viaggio

Antonella Cuppari

29-02-2004  

Ai miei compagni di viaggio, e in particolar modo a Ivano,
a Ernesto e a Romeo, che ieri non erano presenti;
alla sig.ra Bartocci, alla figlia e ai loro accompagnatori;
a mia mamma; a me stessa; al cacciatore dalle orme grandi.

Ieri non ho preso uno straccio di appunto; troppo vivo dentro di me era il ricordo; troppo grande il coinvolgimento per annotare sulla carta quello che sentivo. Adesso mi posso avvalere solo di ciò che mi porto dentro, dopo quello che ho vissuto ieri e dopo la chiacchierata fino alle quattro e mezza di questa mattina con mia mamma.

Sabato, 28 febbraio; sono le 15 e 20, siamo al terzo raggio di San Vittore; comincia l’incontro; mi sento pesante e tesa. Ho una paura profonda di perdere il controllo, di perdere i riferimenti; i fantasmi nella testa si sollevano, i giudici sono in guardia.

Sento le parole di diversi detenuti; molte sembrano timide, prendono le distanze dal dolore, dalla sofferenza, dalla rabbia e dalla freddezza che i volti della signora Bartocci e di sua figlia comunicano.

Catturo i dubbi di Massimo, le domande che si fa a proposito della famiglia di chi ha ucciso, catturo il senso di colpa, la “morte dell’anima” di cui parla Fabio; due fantasmi nella mia testa fanno un passo avanti. Do loro un volto, posso loro chiedere.

Non chiedo né a Massimo né a Fabio; chiedo a me, a quella parte di me che si domanda se per caso ho un posto nella mente di chi ha ucciso mio padre, chiedo ai miei giudici che condannano il mio corpo nelle piccole cose di tutti i giorni.

Massimo e Fabio si interrogano, mettono su un tavolo due grossi punti interrogativi. Io li prendo, li rilancio, chiedo loro di provare a rispondere.

Le lacrime scendono, mi viene da vomitare.

Ascolto la Bartocci, ascolto la figlia: loro parlano di un uomo, marito e padre, a cui volevano bene, che aveva un negozio, una vita normale, e che è stato ucciso. La loro vita sconvolta per sempre, i loro nomi su tutti i giornali. E poi i processi, le condanne, la Giustizia, i colpevoli e le vittime. Così la rabbia può avere un destinatario con un nome, l’eventuale perdono può indirizzarsi verso qualcuno, le vittime sono chiare e definite, i colpevoli pure.

Cosimo legge uno scritto di Ivano: nei pensieri dell’uomo che lui descrive, sovrappongo i miei pensieri su quello che mio padre può aver pensato qualche istante prima che due sconosciuti premessero il grilletto. Ivano si è messo dall’altra parte, si è messo negli occhi di chi ha una pistola puntata contro. Io pure. Mi sono trovata ad avere Ivano al mio fianco, vicino ai miei pensieri non detti.

Sento progressivamente uno spazio dentro di me allargarsi; tante cose sono sul tavolo. Ho paura, ho voglia di passare la mano. Voglio scappare, fuggire lontano e tenere per me tutto il malloppo. Continuo a sentire un nodo alla gola.

Il prof ad un certo punto mi chiede se voglio parlare. Il mio silenzio dice sì, tutto dentro di me si contrae. Penso al dopo, torno indietro a quando avevo 11 anni, a quando la notizia è finita sui giornali, a quando i miei compagni mi trattavano come fossi un marziano appena giunto sulla terra, a quando la mia famiglia è rimasta sola. Livia mi stringe la mano; sento il suo calore, la sento vicina, sento il rispetto dei miei compagni, di chi mi è attorno. Sento Cosimo dietro di me, lo sento vicino nel silenzio. Il prof mi lascia decidere; perché non mi spintona? Invece dà spazio al mio silenzio.

Mi lancio: mi racconto, non ricordo di preciso le parole, sento il nodo in gola che progressivamente si scioglie, continuo ad avere la nausea, i giudici impazziti cercano di spegnere la confusione della mia mente.

Avrei voluto dire cose intelligenti, avrei voluto dire che avevo bisogno del gruppo, che in carcere ci sono entrata perché in prigione mi ci sono messa da me, come forse ognuno dei presenti ha messo in galera una parte preziosa di sé.

Evito lo sguardo degli altri per diversi minuti; provo vergogna, imbarazzo, gli stessi sentimenti che provai la prima volta che ripresi il pullman per tornare a scuola dopo i funerali di mio padre. Ripenso a quegli occhi che undici anni fa mi guardavano e mi compativano, che non si avvicinavano, presi da un senso assurdo di rispetto, di distanza, di evitamento. Ripenso alla mia rabbia e alla mia solitudine di fronte a quel modo di rispettarmi.

Volevo star bene nella mia pelle, poter continuare ad essere cittadina del mondo, una compagna di classe, un’alunna vivace. Non ci sono riuscita.

Nella vita sono stata bene solo quando potevo negare e nascondere la mia storia, la mia identità, il mio passato: all’inizio della scuola superiore, adesso che mi sono trasferita in un nuovo paese. E’ brutto cercare di stare bene quando tenti di cancellare a tutti i costi una parte di te. Ti senti vuota, superficiale, razionale.

L’incontro finisce e tutti usciamo fuori da quello stanzino, da quel box dove per la prima volta ho provato a mettere un piede davanti all’altro. Sento sì l’imbarazzo dei miei compagni, detenuti e studenti, ma mi sento presa e riconosciuta. Li sento vicini.

Ieri ho messo la mia puntata sul tavolo da gioco.
E ora voglio giocare, voglio rischiare, non voglio restare indietro.
Tra quelle mura mi sono sentita libera, nella mia pelle sono stata bene.
Avrei voluto che lì ci fossero state anche mia madre e le mie sorelle.
Per questa volta il guadagno glielo porto a casa io.

Poi le parole del prof: “Ognuno può essere uno strumento per aiutare gli altri e se stessi a raggiungere la meta per cui siamo nati: divenire uomini. Ci sono motivi, esperienze diverse per cui su questo tragitto ci si può bloccare o deragliare. Ma di ciò che si è e si è stati si può fare materiale per alimentare la crescita nostra e del mondo”.

Un discorso che ho sentito rivolto a me, a Livia, a Enzo, a Dino, alla parte leggera di Cosimo, alla formichina di Silvia, alla parte che si interroga della Sig.ra Bartocci, a tutti i presenti, a Massimo, a Fabio, a Giulio, a Walter. A chi è in divenire. Non volevo venire ieri. Il prof mi ha chiamato arrabbiato. Nella sua rabbia sentivo l’affetto di chi mi invitava ad essere parte del mondo.

Nel mondo ho scoperto che ci può essere posto anche per l’Antonella Cuppari, con nome e cognome, con la sua storia e le sue emozioni negate; e ci può essere spazio per il dolore di Fabio e per le domande di Massimo. E ci può essere spazio per la voce preziosa di Livia.

Grazie per quello che sto diventando, in un viaggio con altre persone in divenire.


Con riconoscenza,
Antonella Cuppari