Prima di seguire il microcorso sulla devianza, avevo le idee decisamente più chiare, ovviamente perché ignoravo molte pieghe nascoste dei tanti argomenti affrontati.
Mi hanno molto colpito le problematiche intorno alla domanda "incapace o capace di intendere e di volere?".
Il Codice Penale dice:
ART.85: | Capacità di intendere e di volere Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E' imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. |
ART.88: | Vizio totale di mente Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere. |
ART.89: | Vizio parziale di mente Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita. |
Mi è sempre sembrato coerente e giusto; chi non è in grado di capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, non può essere punito.Bisogna insegnargli a capire.Chi sa cosa è male e cosa è bene e nonostante questo sceglie il male, è giusto che sia punito e che impari a comportarsi nel rispetto degli altri.
Durante il corso si è però parlato di micro e macro scelte, di spazio e di paradossi, e ho iniziato a riflettere.
"E' difficile valutare quanto l'azione criminosa discenda da una scelta. O meglio, è difficile valutare quanto la gamma delle scelte possibili, fra le quali è stata selezionata la scelta criminosa, sia a sua volta l'esito di una scelta" (A. Aparo).
Tutti noi, nei nostri gesti quotidiani, compiamo delle scelte. Decidiamo se prendere le scale o l'ascensore, se fare psicologia o ingegneria, se andare al mare o in montagna. Credo sia abbastanza intuibile che ognuno di noi scelga tra ciò di cui dispone, tra ciò che riesce a vedere attraverso quella lente deformante che è la nostra mente. Non posso scegliere la pallina blu, se ho davanti solo una pallina rossa e una gialla.
E' questo lo spazio: le risorse della persona, le motivazioni, le esperienze che il soggetto sente di poter fare per esprimersi. Tali risorse sono sia materiali sia psichiche, sono condizionate quindi sia dall'esterno sia dall'interno. Se si sente che lo spazio per esprimersi esiste, è ampio, allora ci si muove bene, si creano opportunità, si costruisce. Se questo spazio non c' è, si devono trovare altri modi per muoversi, altre strategie, come possono essere le nevrosi o il reato.
Dove c' è rabbia e rancore, dove c' è la sensazione di essere stati traditi e abbandonati, c' è anche uno spazio piccolo, stretto, ostile e l'esigenza di andare altrove è forte. Non si ha voglia di costruire in quel mondo che ci ha tradito e abbandonato.
La scelta criminosa, molto spesso non nasce all'improvviso, ma è lentamente creata da una serie di microscelte che ne costituiscono la piattaforma. Una microscelta è, ad esempio, quella di decidere di frequentare una certa compagnia e non un'altra. Poi di rompere qualche lampione per strada per farsi accettare dal gruppo, poi di rubare il cellulare ad un compagno di scuola e via di piccolo furto in piccolo furto, fino alla rapina in banca. Un'altra è quella di portarsi dietro una pistola per fare più paura, senza avere la minima intenzione di usarla, ma entra un poliziotto e a quel punto il campo di scelta è limitatissimo, ed ecco la macroscelta: o ci si arrende e si va in carcere, o si spara e si cerca di scappare.
Se si vogliono capire le motivazioni del reato, non ci si può fermare in superficie, ci si deve addentrare nel buio, in ciò che non è ovvio e comprensibile.
E' quindi meglio osservare i reati più insensati, perché ci obbligano ad andare oltre, a non fermarci alle risposte più immediate.
Perché si rapina una banca? Per i soldi!
Perché si sevizia e si uccide un bambino?
!Dov'è il tornaconto?Dov'è la logica?
Consideriamo allora una persona che violenta e uccide un bambino.E' un crimine insensato, nessuno riesce a vedere il vantaggio che il reo dovrebbe trarne.
Ha senso quindi per reati come questo la domanda "è capace di intendere e di volere?". Di intendere e di volere che cosa?
E' illogico supporre che uno come Luigi Chiatti fosse capace di intendere e di volere. Nonostante sia illogico, però, lo si deve dichiarare tale per poterlo condannare. Questo è un paradosso!
Non avevo mai guardato la questione da questo punto di vista e mi sono ritrovata in un vortice di pensieri.
" A quali bisogni della nostra società risponde un diritto penale che chiede ai periti di decifrare se chi commette un delitto così manifestamente insensato abbia o no capacità di intenderne il senso?" (A. Aparo).
Quando la legge è chiamata a giudicare delitti tanto gravi, non si basa solo sui dati materiali riferiti a quel crimine, ma tiene conto anche delle reazioni emotive del cittadino. Il cittadino tende ad allontanare ciò che lo turba e la legge lo asseconda con pene forti. Tutto a patto di giudicare il reo capace di intendere e di volere, che è però una premessa illogica.
Cosa si può fare? Mi viene in mente che si potrebbe provare a cambiare la legge e ad aggiornarla, tenendo conto delle nuove scoperte psichiatriche e psicoanalitiche.
A questo proposito vorrei citare il pensiero del Dott.Luigi D'Angelo, che ho letto in un sito di diritto penale (www.penale.it).
Spiega che il legislatore del 1930 che definì gli articoli 88 e 89, si riferì con ogni probabilità all'originario paradigma psichiatrico in cui "l'unico modello di infermità mentale riconosciuto dalla scienza era rappresentato da quello fondato sul criterio clinico-nosografico". Dal 1930 le scienze psichiatriche hanno elaborato nuovi modelli, nuove conoscenze e con la scuola freudiana e la scoperta dell'inconscio si è iniziato a conferire rilevanza anche a quei disturbi mentali dati "dalla prevalenza di una distorta realtà psicologica rispetto alla realtà esteriore".
Afferma che è quindi necessario chiedersi se sia possibile un'inclusione dei nuovi modelli di infermità mentale nella norma giuridica. Questo comporterebbe un "ampliamento del concetto di infermità mentale".
"Del resto l'eventuale abrogazione degli articoli del codice penale disciplinanti il vizio di mente ed una loro eventuale riedizione legislativa che tenesse conto anche del nuovo paradigma psicologico-freudiano, potrebbe comportare il paradosso di vedersi riproposte delle norme aventi un dettato normativo identico alle precedenti. All'accoglimento di un paradigma di infermità mentale più ampio deve però conseguire un accertamento del vizio di mente[
]con un grado di probabilità vicino alla certezza".
Ho pensato molto a queste parole e alla fine mi sono trovata d'accordo.
Siamo di fronte a nuovi paradossi e tenendone conto, forse, non è cambiando il dettato normativo che si risolvono i problemi. O meglio, accanto ad un'eventuale modificazione delle norme, dovrebbe seguire un altro tipo di cambiamento, forse quello più difficile.
Sempre nello scritto sopra citato, mi hanno colpito queste parole:
"Inoltre accogliere una trasposizione sistematica nel mondo del diritto di ogni innovazione scientifica riguardo al settore delle malattie mentali è operazione irrazionale poiché diverse sono le esigenze che la scienza medica e quella giuridica tendono a soddisfare".
Sicuramente queste due scienze hanno diversi scopi, ma, anche se probabilmente non era nell'intenzione dell'autore, questa frase mi ha fatto pensare che in realtà uno scopo comune queste due scienze l'abbiano.
La scienza medica, oltre che alla conoscenza, mira anche e soprattutto alla guarigione dei soggetti, così come la legge dovrebbe mirare all'orientamento, all'educazione del reo, sia per prevenire la caduta nel reato che per promuovere l'emancipazione dal reato.
La legge ha infatti due compiti. Uno è la misurazione, l'altro l'orientamento.
Il secondo è come dimenticato, infatti, un pedofilo ha indubbiamente perso l'orientamento, ma la legge, dichiarandolo capace di intendere e di volere e chiudendolo in un carcere, non adempie alla sua funzione educativa e disattende le domande che il reo pone, esattamente come un genitore che punisce il proprio figlio senza però fargli capire l'errore e orientarlo.
E' quindi questo il cambiamento più difficile che si dovrebbe compiere, accanto a quello di un'eventuale rielaborazione delle norme giuridiche.
La legge dovrebbe dunque recuperare maggiormente il suo compito di orientamento e per farlo è inevitabile una collaborazione con le scienze psichiatriche e psicologiche che, per loro natura, si addentrano nelle ombre e cercano di indagare ciò che apparentemente è incomprensibile e insensato.
Considero questo cambiamento difficile, perché forse il cittadino comune si sentirebbe preso in giro, come se si volesse dare importanza a chi compie delitti tremendi. Ho inoltre avuto la sensazione, basata solo su veloci chiacchiere tra amici e che quindi non ha alcun fondamento, che ci sia pochissimo interesse a capire le ragioni del reo. E' quindi importante creare il cambiamento lasciando spazio alla comunicazione tra il mondo fuori del carcere e quello dentro il carcere, senza cadere nell'errore di concentrarsi su una parte, tralasciando le esigenze dell'altra.
Con una maggiore comunicazione, il reo imparerebbe a comprendere le ragioni del cittadino e quest'ultimo quelle del reo.
Questo ovviamente non mira ad alcun tipo di giustificazione del reato, ma all'orientamento del soggetto che lo ha compiuto e della società.
In conclusione, io credo che la domanda "capace o incapace di intendere e di volere?" sia illogica, ma nonostante questo debba essere mantenuta. Ciò che si dovrebbe cambiare è la risposta della legge a questa domanda.
Non si deve arrivare ad essere costretti, per condannare qualcuno e non ferire il cittadino, a supporre la capacità di intendere, quando questa palesemente manca. Attraverso la comunicazione tra le parti, si può arrivare a dichiarare un pedofilo incapace di intendere e di volere, senza che per questo il cittadino si senta tradito. Ad esempio con l'istituzione di una misura detentiva successiva alla cura del soggetto. In questo modo, a mio avviso, la legge adempierebbe il suo compito di orientamento dovuto al reo, e a quello di misura dovuto al cittadino.