La nostra condanna

Granit Gjermeni

11-11-2010  

Parlare della morte è difficile per tutti ed è un tema che le persone preferiscono evitare. Quando abbiamo deciso di dare voce alla morte, a me sembrava una cosa molto interessante e, anche se non avevo ancora idea di come e cosa sarebbe venuto fuori, ho pensato: perché non provarci?

Ho cominciato col cercare di capire cosa avrebbe fatto la morte con Sisifo, come si sarebbe comportata, cosa avrebbe detto, ma, visto che non potevo saperlo, ho provato a riflettere su cosa avrei fatto e detto io al posto della morte.

Da questa riflessione sono venute fuori tante cose, per cominciare, la problematica dei limiti, che sembra una cosa difficile ma è facile. E' facile da capire ma è difficile metterla in pratica e accettarla.

A questo punto del mio racconto non mi sento più la morte che parla con Sisifo, ma sono io Sisifo che parlo a me stesso del mio fallimento, come una guida, come un padre che ha fallito, consapevole dei suoi errori e consapevole di essere anche un prodotto della società.

Mi spiego, ma lo faccio perché questa è la mia storia, non per giustificarmi. Sono nato in un paese che ha vissuto per 45 anni sotto dittatura, dove eri costretto a dire che stai bene anche se ti mancava il necessario per vivere, dove la libertà di parola non esisteva e, se mettevi in dubbio la credibilità dell'autorità o esprimevi un libero pensiero non compatibile con il sistema, eri considerato un traditore o nemico del tuo popolo e la condanna era terribile.

Ho vissuto la mia infanzia in un paese dove quelli a cui il popolo ha dato fiducia per fargli da guida verso un futuro migliore sono diventati dei tiranni. Hanno tolto alle persone le speranze e la fede. Hanno demolito chiese, moschee e monasteri. Ci hanno proibito perfino di credere in Dio. Vi assicuro che le ingiustizie e gli abusi che hanno fatto quella gente erano enormi e infiniti.

Se le persone continuavano a rispettare la legge era solo per paura o perché qualcuno non aveva perso ancora le speranze. Io stavo crescendo in un mondo dove la vera realtà non era quella che volevano farmi credere. Io non ci stavo, ho perso non solo la fiducia nelle autorità, ma ho provato odio e disprezzo per tutto ciò che loro rappresentavano. Mi stavano togliendo lo spazio per vivere e ogni mio diritto. E di fronte a questo io ero impotente. Così è cominciata la mia sfida: un po' per giustizia, un po' per vendetta e un po' perché volevo conquistare quella libertà che ti permette di essere un uomo.

E ora eccomi qui con quasi 20 anni di vita buttata via e chissà perché!

Nella scena dell’incontro fra la morte e Sisifo, Thanatos dice “Io brindo ai tuoi figli e ti prometto che gli starò vicino e cercherò di far capire a loro tutto quello che non sono riuscito ad insegnare a te, così i tuoi errori non continueranno a ripetersi e i tuoi figli non pagheranno per i tuoi sbagli”. Queste non sono le parole di un padre, perché io non lo sono. Ma sono stato un figlio e come figlio questo è il mio desiderio, per non lasciare in eredità a chi verrà quello che io ho avuto e vissuto.

Più rifletto sul mito di Sisifo, la sua condanna e il suo significato, e più mi chiedo: ma è Sisifo che sta continuando a spingere quel masso in eterno o lo ha trasmesso a noi che stiamo continuando a spingerlo generazione dopo generazione? Vedo che la nostra storia continua a ripetersi e che l'uomo ha cambiato quasi tutto nel corso della sua esistenza ma non è riuscito a cambiare la sua natura: egoista, arrogante e affamato di potere. Non è che il nostro destino è di continuare a spingere quel masso? Non è che siamo noi che stiamo vivendo in un tempo circolare? E fino a quando? Riusciremo noi a capire chi siamo e cosa vogliamo? O la nostra condanna consiste proprio nel nostro modo di essere uomini?