Il guardiano e il mostro | |
Antonella Cuppari | 02-02-2005 |
Sono arrabbiata nera: anche questa volta non sono riuscita a tenerlo a bada e lui ha divorato tutto quello che aveva intorno… mi sento sempre più grossa e orribile.
Arrivo al gruppo indossando pantaloni larghi, così non mi vergogno, nascondo agli occhi giudicanti degli altri, la mia colpa.
Si parla di tematiche organizzative, poi ad un tratto Walter prende la parola, legge un suo scritto e se ne va. Mi segno alcuni passaggi forti e significativi. Spesso Walter adotta un linguaggio carico di emozioni; io mi segno “urlo voglioso”, “precipizio immenso che a volte ringhia incazzato”.
Mi vedo a quattr’occhi con il mio amico-nemico, un mostro primordiale e affamato che tengo legato in una caverna al buio; quell’animale, a volte, urla così forte che non sempre riesco a domarlo, sottometterlo. Allora mangia, divora: non sa che il cibo è pericoloso, che riempie, che si espande nel corpo e si insedia, che è difficile, poi, cacciarlo via, smaltirlo.
Ci sono momenti in cui lo odio, lo vorrei morto, lasciandolo a digiuno per giorni, per vederlo sparire a poco a poco e per non sentire più il suo ringhio. Lo odio così tanto e lo temo così tanto che ormai i miei pensieri sono tutti assorbiti dall’esigenza di trovare un modo per domarlo. Ci sono periodi in cui ci riesco e lui sta quieto, poi d’un tratto, una delusione, un’emozione forte ed ecco che torna a ringhiare.
Lui è feroce e può inghiottirmi affamato com’è. Che ne sarebbe di lui se mi sbrana? Mi vergogno di quel mostro, da quando sono diventata il suo guardiano? Quali sono i suoi lineamenti? E’ davvero così orribile?
Torno indietro nel tempo: da bambina non ricordo di essere stata schiava di questo legame. Torno allora al periodo delle medie, alle prese in giro dei miei compagni, alla morte di mio padre e a tutto ciò che ne è derivato, al mio essere più piccola di un anno rispetto agli altri componenti della mia classe, al mio sentirmi diversa, insignificante, brutta.
Ricordo i primi anni delle superiori, quando mangiavo senza sosta patatine, cioccolato, panini, pop corn; insensibile al peso che saliva, silenziosa di fronte alle parole del chirurgo che mi operò di appendice e mi sgridò dicendomi che ero un po’ soprappeso a causa della mia alimentazione irregolare.
Coltivavo dentro di me un profondo rancore verso me stessa, sostituivo parti di me e della mia storia con racconti frutto della mia fantasia: avevo due genitori, ero felice e serena.
Ricominciai danza; poi un giorno guardandomi allo specchio, lo vidi per la prima volta: il mostro. Era dentro di me, l’opera di ripulirmi da ciò che non volevo essere non aveva funzionato, mi ritrovavo invasa dai miei rifiuti, da me orfana, da me piccola, da me brutta, da me insignificante. Da lì cominciai a mangiare sempre meno, riuscii a portare il mostro in una caverna ed è da allora che lo controllo.