Luigi Pagano

Provveditore regionale per le carceri lombarde


A cura di Livia e Silvia Intervista sulla punizione Le altre interviste

 

Ci dica 5 parole che lei può associare al termine “punizione”.
Cinque parole? Cominciamo già con un’impasse! Più che parole, mi vengono in mente immagini: il carcere, il giudizio universale, un Dio iroso, infliggere del male. Sono questi i tipi di immagine che mi vengono in mente, forse per avere lavorato molti anni in carcere, nella struttura definita, per eccellenza, come punitiva.

 

Ci può parlare brevemente di una punizione che ricorda di aver subito?
Sarebbero tante, non è che fossi una persona molto “adeguata” prima di entrare in Amministrazione! I miei interessi giovanili, fino ai tempi dell’università, erano prettamente calcistici; andavo a giocare a calcio, non solo o non tanto per l’aspetto ludico, quanto perché credevo fosse quella la mia vera vocazione. E tutte le punizioni familiari mi colpivano sotto l’aspetto calcistico: mi venivano nascoste le scarpe e, non potendo camminare scalzo, ero costretto a rimanere in casa; quando invece le trovavo allora venivo chiuso dentro. Queste punizioni erano dure perché dovendo giocare in campionato non potevo allenarmi con costanza. Di fatto, forse, la punizione ha limitato una mia possibile carriera.

 

E lei ha mai punito qualcuno?
Ci mancherebbe altro, certo. Al di là di quelle che riguardano la sfera familiare, di punizioni, facendo il Direttore di carceri per 25 anni, mi è capitato di darne. Tra l’altro, fino al ’92 il Direttore aveva il potere di infliggere sanzioni disciplinari, oltre che ai detenuti, anche al personale di custodia. Le punizioni andavano dalla consegna in caserma, alla riduzione dello stipendio, la consegna ricordava un po’ le punizioni derivanti dal rapporto genitoriale, ma con un grado di fantasia e di arbitrio molto minore perché le infrazioni disciplinari e le punizioni rispondono al principio di legalità, puoi punire soltanto se quella infrazione è espressamente prevista. Comunque, magari memore della mia esperienza filiale, ho sempre usato con molta parsimonia lo strumento punizione, ho sempre cercato di percorrere la strada della discussione e del dialogo e consideravo, come continuo a considerare, la punizione come estrema ratio.

 

Di solito si punisce un comportamento, ma quali sono le costanti dei comportamenti che vengono puniti, quali sono gli atteggiamenti che di solito accompagnano il comportamento che si ritiene di dover punire?
Si puniscono i comportamenti che si ritengono non normali, non legittimi, non leciti. Certamente è molto più semplice definirli tali quando esiste una norma di riferimento, come nel campo penale o in generale giuridico. Diverso è nella vita comune definire  il concetto di normale, perchè il giudizio sul comportamento che tu ritieni debba essere punito, censurato, rischia di essere soggettivo, relativo.

Ogni qualvolta lo stile di pensiero o di comportamento si viene a scontrare con ciò che in quel determinato periodo di tempo e in quel luogo è data come consuetudine di normalità, nasce una situazione di contrasto che può attivare una punizione. Come poi si attui questa punizione dipende dal contesto.

C’è da dire, però, che oggi, nella società, in generale, sembra esserci maggiore tolleranza per le deviazioni non riferite a norme di natura legale, ma a ben guardare molte volte parlare di tolleranza è fuori luogo, meglio sarebbe definirla accondiscendenza, nel senso che alcuni comportamenti si ignorano semplicemente anche quando dicono o sembrano contrastare l’assetto costituito.

Ho vissuto in parte il ’68, e come in quel clima la musica Rock, ma anche innocenti canzoni come “C’era un ragazzo..” sono diventate “di lotta”, oggi un Marilyn Manson, che si traveste da Satana , viene accettato, o meramente ignorato.

 

E quale atteggiamento, invece, manca o è carente nella persona che si ritiene di dover punire?
Se lo sapessimo, forse avremmo risolto il problema! Non sono convinto che il termine “carente” sia il più corretto. La mia vita è stata segnata dall’essere direttore di una struttura punitiva e dalla formazione legalista, per cui, secondo me, con estrema ovvietà l’elemento caratterizzante di un comportamento da punire è l’opposizione, il contrasto alla previsione di legge; ovvero, con l’avvertenza che la stessa legge è una convenzione (si dice non ci sia mai stato un comportamento o atteggiamento che sia stato censurato in tutte le epoche e in tutti i paesi allo stesso modo), chi trasgredisce la norma viene punito.

 

Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
La punizione mi sembra dovrebbe avere in sé una carica, una finalità pedagogica, non è mai azione fine a se stesso; si punisce, o si dovrebbe, avendo in mente un fine. La punizione ha l’obiettivo da un lato di correggere i comportamenti pericolosi, e dall’altro di fornire un esempio per evitare azioni non adeguate al contesto.

Per quanto riguarda l’aspetto della norma penale, ci sono due grandi dottrine: si punisce perché si deve punire e si punisce per ottenere qualcosa. Se punire è necessario, credo convenga punire per ottenere qualcosa, altrimenti la punizione perde la sua valenza più importante e rimane solo l’infliggere, volontariamente, un male…

 

Cosa rende più probabile che la punizione sortisca l'effetto desiderato?
Innanzitutto, deve essere garantita l’effettività della pena: una volta minacciata la punizione, occorre esercitarla. Non c’è nulla di più deleterio per il rafforzamento delle tendenze negative di minacciare una punizione e poi non eseguirla, accantonarla implicitamente.

Poi la conformità alle regole. La punizione ha necessità di essere assoggettate a regole per evitare che diventi esercizio arbitrio ed eserciti un dolore maggiore rispetto a quelli che sono gli intenti, le finalità. E partiamo dal presupposto che la punizione sia l’esercizio di un male scientemente esercitato.

Infine deve essere coerente con le premesse alla base della sua inflazione.

La punizione deve mantenere lo scopo dichiarato, deve essere esercitata nel rispetto delle premesse e delle motivazioni dichiarate a priori. Il rischio di una punizione male esercitata è di devastare la persona, non ottenere l’effetto positivo cercato, e, in definitiva, deleteria e ingiusta, pur rifacendosi a un sistema che si definisce di Giustizia.

 

La punizione può sortire a volte l'effetto contrario a quello cercato?
Sicuramente! Quando diventa una pratica, un esercizio formale e non tiene conto né delle premesse, dei principi su quali si fonda, né della situazione soggettiva di chi le si para davanti.
La punizione, nello stesso campo penale, nonostante tutte le norme che cercano di focalizzare l’attenzione sull’aspetto soggettivo, sull’individualizzazione del trattamento, ha un forte margine di oggettività col rischio di ottenere effetti contrari a quelli cercati. Un po’ quando si pensa di poter curare tutte le malattie con la stessa medicina.

Il limite del carcere è tale per cui, per ancorare la punizione alla giustizia e al principio di legalità, la pena si oggettivizza e non traduce in effettività quelli che sono i principi ispiratori, producendo molte volte effetti contrari a quelli dichiarati.

Non è detto che si debba punire sempre attraverso il carcere, mentre invece il carcere è diventato la pena prevalente. E in carcere, prevale, fatalmente  l’aspetto punitivo, rispetto a quelle che erano le premesse iniziali, di trattamento e reinserimento sociale.

 

Può citarmi un esempio di punizione che abbia raggiunto lo scopo? E quello di una punizione che lo ha mancato completamente?
Vi faccio un esempio della situazione attuale. L’ordinamento penitenziario del ’75 era tarato su una determinata figura di detenuto: italiano, con alcuni riferimenti all’esterno (casa, famiglia, lavoro..) che avvalendosi delle opportunità trattamentali offerte  all’interno degli istituti penitenziari, avrebbe potuto aspirare a usufruire di misure alternative, se nei termini giuridici, e quindi essere aiutato a reinserirsi nel contesto sociale. A distanza di 30 anni la società è fondamentalmente cambiata, prima il fenomeno droga, poi l’emergenza della grossa criminalità, ora l’immigrazione; il nostro sistema non si è adeguato e oggi, esercita il suo potere,  dovrebbe “rieducare” persone che non sono più quelle di allora, ad esempio gli stranieri molti dei quali  non hanno quei riferimenti esterni a cui il legislatore aveva pensato di agganciarsi, per l’opera di rieducazione, nel ‘75. Banalmente, voglio dire, che se pure allargo le possibilità di ottenere gli arresti domiciliari, un detenuto non li potrà ottenere se il domicilio non lo ha.

Il sistema penitenziario oggi trattiene in carcere persone che non sono più pericolose di altre. Il discrimine per cui si viene puniti attraverso l’uso esclusivo della detenzione e si rimane in carcere sino alla fine della pena, non sembra più essere la pericolosità in sé, quanto l’assenza di una casa, di un lavoro, di una famiglia alle spalle. Ne consegue che, pur in presenza di pene basse, testimonianza di una non eccelsa pericolosità, molti detenuti rimangono in carcere per pochi mesi, se non addirittura per pochi giorni.

In questo senso si inserisce il discorso della pena esercitata male, fuori di ogni significato. Una pena così non otterrà mai le finalità dichiarate e perde anche la funzione di prevenzione speciale e pedagogica che dovrebbe avere. Siamo di fronte ad una pena che si risolve in una punizione fine a se stessa, che non solo sembra non ottenere nulla ma addirittura ottiene gli effetti contrari e, anziché ridurre, incrementa le potenzialità pericolose del detenuto perché in carcere si impara a delinquere meglio, a diventare più furbi se non addirittura a offrirsi alla criminalità organizzata come “operaio semplice”

 

Abbiamo davanti a noi un quadro con dei personaggi, di cui qualcuno punisce e qualcuno viene punito. Quali persone e quali situazioni caratterizzano questo quadro?
Per rispondere a questa domanda mi rifaccio alle Sacre Scritture, all’immagine della creazione di Michelangelo della Cappella Sistina: mi pare di ricordare che c’è un Dio iroso, corrucciato che caccia Adamo ed Eva dal paradiso esercitando il proprio potere assoluto; dall’altra parte del quadro abbiamo Adamo ed Eva che abbassando la testa, un po’ incurvati, escono dalla scena col peso della punizione e con la vergogna per il peccato che hanno commesso.

 

 

Mi può descrivere almeno un altro “quadro tipico della punizione”?
Un altro quadro è l’aspetto meno crudo del quadro della Cappella Sistina di Michelangelo o del Masaccio, è una scena più asettica, data dalle aule di giustizia dove la punizione viene inflitta in un quadro di legalità, dove tutto sembra perfetto, sterile, dove campeggia quella famosa scritta “La legge è uguale per tutti”.

Il rispetto formale della legge oggi rischia di tramutarsi in una sostanziale ingiustizia: non so quanto possa essere giusto punire affermando che la legge sia uguale per tutti quando non tutti sono uguali  di fronte alla legge. Se la legge agisce secondo i canoni della scuola classica, il problema è che non tutti hanno uguali opportunità di fronte alla legge. Ci troviamo così davanti ad un paradosso: perseguendo la massima giustizia si ottiene molte volte la massima ingiustizia.

 

Quale immagine hanno l'uno dell'altro chi punisce e chi viene punito?
In prima battuta mi viene in mente questo: la potenza dell’uno e l’impotenza dell’altro. Da una parte abbiamo chi punisce che, in funzione della mentalità che si è creato e di quanto si identifica nel concetto punitivo, può sentire di esercitare un potere giusto ma può anche arrivare se il potere non si autolimita a forme di sadismo seppur mascherato da buona fede. Dall’altra parte c’è il punito, una persona in balia dell’altro.

In genere chi viene punito, salvo non sia masochista, non vede di buon occhio il suo punitore. Non so se sia naturale che uno debba concordare con la punizione seppure legittimamente inflitta. Questo interrogativo me lo sono posto diverse volte: la punizione è comunque afflizione di un male e non so fino a che punto possa essere un fatto positivo che il punito accetti la pena, non so se in questo modo si ottengano esattamente quegli scopi che, con la pena, ci si era prefissati.

Per esempio, noi avevamo un grosso tangentista che voleva essere punito, mentalmente sposava la tesi della punizione, ma non per essere rieducato, e stravolgeva tutto lo schema della forma punito/punitore.

 

Quali sentimenti, quali fantasie vive chi punisce?
Pensando a me stesso giovane, avevo in mente una fantasia eroica, romantica della persona non capita, incompresa. Come David Cooperfield di Charles Dickens, un ragazzo dei tanti che partivano per il mondo inascoltati e non capiti dalla propria famiglia, io mi vedevo così. L’atteggiamento punitivo degli adulti poi mi rivelava il mio animo ribelle, e certe volte l’essere punito invogliava a trasgredire più che desiderare di conformarmi a ciò che mi si diceva.

Chi punisce ha il limite di dimenticarsi di essere stato figlio: le stesse cose che diciamo oggi a chi puniamo, allora che eravamo puniti non ci servivano.

 

Riportiamo lo stesso discorso al piano genitore-figlio: quali stati d'animo prova un genitore che punisce?
Un genitore dovrebbe provare dolore, innanzitutto, perché la punizione è infliggere dolore a una persona che si ama, o si dovrebbe; un genitore non sa mai come la punizione che sta infliggendo venga percepita dal figlio. Molte volte seguiamo degli schemi fissi, facciamo così perchè si è sempre fatto così, siamo convinti che ad una certa azione debba corrispondere una reazione, in questo caso positiva, ma non è detto che siamo in grado di ottenerla. Quindi dolore, cautela e speranza che ciò che stai facendo sia giusto per ottenere ciò che vuoi: il bene di tuo figlio.

 

E un figlio che viene punito?
Sempre pensando a me figlio, alcune volte non capivo, sapevo di essere nel torto, ma molte volte comunque non capivo perché mi si puniva. Non ricordo se le punizioni che mi venivano date mi siano servite, o per lo meno non così direttamente come credevano i miei genitori. In quei momenti non mi divertivano le punizioni ovviamente, e non credo che facessero più di tanto effetto, alla prima occasione buona trasgredivo: pensare di evadere, mi sembra, faccia parte del gioco! Poi è prevalso qualche altra cosa, l’esempio dei miei genitori, le parole che ci siamo detti e quelle che non ci siamo detti, le paure, nuove conoscenze.

 

Che rapporto c'è fra punizione e potere ?
Tra punizione e potere c’è un rapporto di coerenza: se nell’ambito dei rapporti codificati, chi punisce ha il potere di farlo, qualcuno, qualcosa, gli deve riconoscere il potere di punire. Altrimenti è esercizio arbitrario.

Punire senza avere il potere di farlo è ingiusto, non rispetta le premesse date, e non otterrà gli effetti cercati. Il punito, credo, debba riconoscerti il potere di punirlo, di fronte all’arbitrio ha il diritto di resistenza.

 

Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
I campi da trattare sarebbero tanti, ma mi limito a uno. La mia formazione mi porta a concepire un potere legittimo che eserciti una punizione legittima, non sto parlando di giustizia ma di legittimità. Non è legge perché è giusto ma è giusto perché è legge.

 

Quali obiettivi persegue il potere con la punizione?
Affermare se stesso
! Dal momento in cui si crea una situazione tale per cui ti pongo un divieto e tu trasgredisci, tu stai mettendo in  discussione il mio potere e quindi me stesso. Il potere esercitato attraverso la punizione riconferma se stesso.  Regolare l’ordine sociale, quantunque scopo egregio, penso sia di fatto secondario

Se ci spostiamo a 300 anni fa questo esercizio di potere si rappresentava fisicamente, era immediato; alla trasgressione la reazione era il prendere il corpo del condannato e portarlo alla gogna, squartarlo, decapitarlo. Ciò indicava che il rapporto tra potere e punizione era un dominio diretto e lo si esercitava davanti a tutti, utilizzando fisicamente la punizione quale longa manus, affermazione tangibile del dominio sui sudditi.

Oggi sembrerebbe che non sia più così, ma se entriamo in un carcere, anche il migliore, vediamo come la punizione sia comunque un esercizio fisico sul corpo del condannato, pur se meno immediato, più sofisticato, più sterilizzato.

 

Pena e punizione: trova che esistano delle differenza rilevanti?
La punizione è il mezzo attraverso cui affermi la pena. La pena è ciò che prevedo, la punizione il mezzo attraverso cui lo realizzo; molte volte il mezzo però contamina gli obiettivi della pena. La punizione dovrebbe essere consequenziale alla pena, dovrebbe esserci un rapporto di coerenza tra pena e punizione; invece ciò che immagini con la pena spesso viene corrotto dal mezzo, dalla modalità di esercizio della punizione. Alcune volte il mezzo non è adatto, altre volte il mezzo non è molto curato, in altri termini la mancanza, alcune volte, è a livello strutturale, altre a livello funzionale.

Idealmente tutto appare armonico, coerente, forse anche giusto; scendi sulla terra e questi concetti perdono forza, divengono incongruenti, a volte chiudi gli occhi e cerchi di andare avanti, altre volte arrivi alla radicalità dello scontro.

Oggi è prevista un’accettazione acritica di ciò che stiamo facendo; c’è poca discussione in generale, a livello teorico e  pratico, nessuno cerca di costruire un sistema che metta insieme teoria e pratica, che sia coerente, che non dica una cosa e ne realizzi altre, nella indifferenza totale. Mi sembra che andiamo avanti razionalizzando l’esistente, come a dire “non abbiamo altre strade, quindi accettiamo quello che c’è”, il che poi inficia tutta costruzione sistemica.

 

Quali sono le finalità della pena inflitta dalla legge?
Nel campo penale, l’art. 27 della Costituzione parla chiaro, o sembra parlare chiaro: ad una prima lettura potrebbe sembrare che la funzione principale attribuita alla pena sia la rieducazione, ma probabilmente non è così, e, leggendo i lavori preparatori, questo lo si comprende, e si è arrivati a definire il  concetto di polifunzionalità della pena: la pena dovrebbe perseguire diverse finalità tra le quali quella retributiva, la prevenzione speciale e la prevenzione generale. Ma non è facile conciliarle tra loro e ancor più difficile lo è se consideriamo che nella realtà dei fatti poi ogni finalità, sembra venire sconfessata dai mezzi utilizzati. Abbiamo una bellissima Costituzione e ancor più belle leggi, ma  le realizzazioni pratiche sono sempre troppo lontane da quanto era stato previsto.

Credo, infatti, che se veramente l’art. 27 avesse voluto significare che la prima finalità della pena deve essere quella del reinserimento sociale del reo il Legislatore a non avrebbe mai potuto pensare a tradurre questo concetto attraverso il carcere. Noi abbiamo tradotto il concetto di pena in quello di carcere per pigrizia, per incapacità di immaginare altro e perché non si è mai creduto seriamente che la pena dovesse tendere a rieducare. Se chiedessimo alla gente qual è la pena risponderebbe il carcere. Ma il carcere è soltanto una pena, non “la” pena. Oltretutto, negli stessi codici, il carcere è considerato l’estrema ratio; invece l’aumento costante dei detenuti segnala che c’è qualcosa che non funziona.

 

Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
Alcuni scopi sicuramente; ma quelli che vengono dichiarati in maniera più eclatante, come il reinserimento del condannato, non mi sembra più di tanto; anche se non lo si ammette, temo si vorrebbe perseguire più un fine  retributivo, o di prevenzione generale (punizione per scoraggiare altri dal seguire l’esempio delinquenziale).

A me sembra che - e parlo sempre del carcere perché le altre forme di pena sono sempre poco praticate tanto da sembrare che nemmeno esistano - il carcere come punizione versi in una grave crisi, più di quanto lo sia mai stato, non comprendendosi più quali effetti realmente riesca a ottenere: la funzione di prevenzione generale, no se guardiamo le statistiche criminali e i soggetti di interesse del sistema penale (se una persona nulla ha da perdere non sarà certo la pena che lo spaventerà)

E nemmeno la funzione di prevenzione speciale, per il discorso che facevo prima: attualmente abbiamo in carcere molte persone che hanno una bassa soglia di pericolosità, ma nessun riferimento all’esterno e quindi, impossibilitate a usufruire delle misure alternative e per le quali non si potrà lavorare neppure per un’idea di reinserimento sociale posto che la maggior parte di questi, parlo degli stranieri, sono irregolari. Oltretutto non abbiamo neppure le risorse, gli strumenti, per poter lavorare in quest’ottica: ampi spazi, celle singole, lavoro per tutti, formazione professionale e via dicendo.

Io penso, comunque, che, al di là della situazione contingente, i limiti del carcere non siano solo strutturali ma anche funzionali; una struttura che isola dal contesto sociale non credo possa vantare nel contempo, se non illudendosi, di potere reinserire una persona nel contesto sociale. Questo credo sia un ossimoro, una contraddizione in termini; tanto è vero che il legislatore ha pensato alle misure alternative e al loro potenziamento.

Ma chi arriva in carcere oggi ci rimane, affermando un riconoscimento quasi classista dell’uso della pena: non è questa l’intenzione ma il rischio è che questo si stia verificando. Quando leggi un’ordinanza che afferma che la persona è presunta pericolosa e la terrai in carcere perché non avendo lavoro, è straniero, è tossicodipendente probabilmente per vivere dovrà commettere reati, non volendolo si è tornati alla concezione classista del diritto penale.

 

Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Questa è un’altra carenza del sistema! Non c’è coerenza in un sistema che dovrebbe essere consequenziale dal momento dell’arresto alla decisione del tribunale, all’esecuzione della pena; invece si arresta per un motivo, si condanna per un altro, poi si recupera il trattamento dall’entrata in carcere con uno squilibrio che rende ancora più delegittimante tutto il sistema e dichiaratamente utopistico ciò si vorrebbe fare in fase esecutiva
.

Se veramente seguissimo i principi del reinserimento, il giudice che condanna dovrebbe tener conto che successivamente ci sarà la fase esecutiva la quale dovrebbe mirare e concludersi con la rieducazione del condannato, quindi dovrebbe tenerne conto nel momento in cui determina la pena da scontare. Ma il momento della condanna risente più di influenze della prevenzione generale che della prevenzione speciale. Ad esempio, si condanna a 30 anni chi commette un grosso reato per dare una punizione esemplare, che sia d’esempio a tutti  piuttosto che valutare la possibilità di recupero della persona; poi nel momento dell’esecuzione si interviene con il trattamento che risulta del tutto slegato dal resto e maggiormente pericoloso come molte volte si vede, perché non si inserisce nel resto della procedura.

 

Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
Credo di no, l’idealità non può contemplare la pena. Se proprio ci dobbiamo rifare a un ideale tanto vale eliminare la pena.

Il carcere ideale è quello che non è mai stato costruito! Non nel senso che manchi la fantasia agli architetti ma perché in una concezione ideale, non credo debba essere prevista la pena e se carcere deve esserci non sia “la” pena, ma una pena.

La pena ideale non esiste anche se nel corso degli anni e dei secoli si è tentato di realizzarla. Io non ho tanta fantasia da immaginarmi una pena ideale, ma per un signore del ‘700 la pena ideale, magari, prevedeva uno squartamento del criminale legato a dei cavalli che corrono in direzioni opposte.

La pena a livello ideale proprio non la vedo. Del resto, un carcere troppo buono sarebbe una contraddizione con se stesso, così come lo è un carcere troppo duro. E’ proprio il concetto di pena che non lo vedo applicato in una condizione ideale.

 

Fra i tipi di pena e di applicazioni che esistono oggi nel nostro paese, quali ritiene più conformi agli scopi che abbiamo detto?
Noto più ciò che non serve allo scopo. La mia critica al carcere è evidente, ma non è non vuole essere ideologica, vorrei solo cercare di capire, e non l’ho ancora capito, quale finalità si annette al suo uso. So perfettamente che il carcere serve a qualcosa, ma magari non a quello che si pensa. Credere che possa evitare a una persona di commettere determinati reati? Non in assoluto; la mafia per anni ha governato dall’interno delle carceri e il boss della camorra, Cutolo, nonostante i sui 25 anni di carcere è riuscito a creare, dall’interno,  un’organizzazione criminale che riuscì a sfidare anche la mafia.

Non direi che il carcere non serve a nulla, serve magari come esempio di punizione eclatante e visibile, rafforzamento nel processo di socializzazione del cittadino, anche se altre sono le variabili che danno un contributo maggiore al processo e anche se lo stesso scopo potrebbe essere raggiunto con mezzi diversi

Io sarei per la creazione di pene diverse, quanti più strumenti punitivi avrebbe il magistrato giudicante tanta maggiore attinenza potrebbe esserci ai casi concreti.

Mi sembra che oggi il carcere venga usato perché non si hanno altri strumenti. Ciò è abbastanza triste perché si sottrae vita al cittadino, con tutti i problemi che ne possono derivare, solo perché non sappiamo cos’altro inventarci E’ solo per la nostra pigrizia mentale che non riusciamo a vedere una pena diversa. Di pene alternative ce ne possono essere, l’unico limite a cui bisogna stare attenti è quello del principio di uguaglianza e di legalità.

Una sana discussione su quali possano essere le pene più adatte in questo periodo storico secondo me va fatta, anche in relazione al rilancio della pena pecuniaria e dei lavori socialmente utili, previsti ma per reati numericamente e qualitativamente marginali.

 

Cosa si può fare per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Domandona! L’accento non deve essere posto solo sulla pena.

Pensando al carcere, il problema seppure, come penso, non fosse di natura funzionale direi che mancano assolutamente le risorse per realizzare quanto il legislatore aveva in mente: il carcere ha bisogno di fondi, di mezzi, di risorse, del contesto sociale che lo aiuti e che ci sia coerenza nell’intero sistema dal momento dell’arresto al momento della sorveglianza.

Il termine pena ha la sua dignità oltre che la sua drammaticità, il concetto ha un valore alto e dignitoso da difendere. Il carcere dovrebbe essere uno dei momenti di maggior sofferenza dell’esercizio della pena, a cui destinare più risorse e maggiori garanzie; invece, per tutta una serie di motivi, si traduce in affievolimento dei diritti del punito perché prevalgono altre istanze. Il carcere dovrebbe essere il momento in cui pur punendo si tutela maggiormente l’individuo perché gli si sta sottraendo la libertà e gli si deve concedere una serie di garanzie per evitare di incorrere in comportamenti che segnano arbitrio e strapotere.

Il nostro sistema potrebbe essere valido se accetti le premesse e ne dai conseguenza reale e concreta: occorre cioè agire non solo sul carcere ma anche sulla società; perché ammesso che ci sia un carcere perfetto, esso è limitato nei suoi effetti positivi dal contesto che manca intorno.

 

Quali sono le condizioni teoriche ottimali per raggiungere lo scopo della pena ?
Se si seguissero i principi enunciati nella Costituzione, come l’art. 3 e l’art. 27, il sistema sarebbe coerente.

 

Art. 3 della Costituzione

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'
organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

Art. 27 della Costituzione

La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

 

Se non tutti partono dalla stessa posizione, l'enunciato che "la legge uguale è per tutti" potrebbe diventare, come rischia di essere oggi, paradossalmente, un principio che genera ingiustizia: se fallisci nel momento sociale, nel momento della Giustizia Distributiva, è chiaro che il momento punitivo non solo diventa discutibile, ma non riesce nemmeno a raggiungere gli obiettivi dichiarati.

 

Cosa si può fare in concreto in questa direzione ?
Il sistema ha molti limiti ma in attesa di una società senza carceri bisogna lavorare nel senso delineato dalla legge; in ogni caso tu le attività le devi realizzare. Porti la società dentro: sai che produci un innalzamento della capacità di confronto, di ragionare insieme, riduci le distanze tra le persone e ne abbassi la pericolosità.

Devi crederci ma non per razionalizzare il carcere, perché comunque il carcere esiste e fa male, quindi devi lavorare per elidere quanto più dolore in più che determina. Poi contesti il sistema perché, in maniera squilibrata, sai perfettamente che stai usando un’auto per viaggiare sul mare o una barca a vela per andare in autostrada.

Crei il Call Center, fai entrare le persone al Gruppo della Trasgressione, fai entrare le scolaresche, fai formazione professionale sapendo che sono utili, dandogli come caratteristica l’offerta di servizio, un’opportunità  che metti a disposzione del detenuto, in un rapporto quanto più chiaro sia possibile.

Quante più possibilità si creano, quanto più è presente un’offerta variata che va dalla formazione professionale alla scuola, ai rapporti con la famiglia ai volontari ecc.. tanto più a livello individuale ognuno può scegliere quello che maggiormente si adatta alla propria persona, che reputa gli possa servire e che abbia una possibilità di utilizzo per il dopo pena.

 

Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell’obiettivo evolutivo o rieducativo della pena?
Non è molto semplice relazionarsi con le persone, specialmente quando la pena è il carcere, perché si intrecciano una serie di rapporti falsati dalla drammaticità del contesto, dalla prevalenza non tanto del concetto di punizione, ma della punizione stessa e della sicurezza.

C’è una mancanza di coerenza del sistema, se lo scopo è rieducare non è detto che debba avvenire per forza con la punizione. Tu ti trovi ad esercitare una pressione su persone che in definitiva sono costrette ad accettare o magari non ne hanno necessità e i rapporti rischiano di tradursi in rapporti di potere più che di “educativi”.

Nel sistema carcerario, non so se sia una costante o un elemento strutturale, il rischio è che prevalga una sorta di darwinismo penitenziario, i più forti sopravvivono e i più deboli li lasci in disparte. Il paradosso dell’essere detenuto è che più ti adatti al carcere meno riesci a riadattarti e reintegrarti all’esterno. Non è detto che chi faccia dentro più casino sia la persona più pericolosa, anzi, il fatto di opporsi al carcere paradossalmente potrebbe essere interpretato come un fatto naturale e sano, ma ti devi adattare al sistema penitenziario altrimenti rischi altre sanzioni di natura disciplinare, ti devi adattare ad una dimensione comunque patologica, che non è naturale e su queste basi poi deve iniziarsi il percorso trattamentale. La realtà dei fatti è così. Il legislatore l’aveva immaginata diversamente, in questo contesto non mi sembra che l’ecletticità, l’intelligenza, il non adattarsi alla vita carceraria sia molto bene visto.

Temo non sia possibile una relazione tra operatore e detenuto che porti alla sua evoluzione. In carcere di autonomia c’è poco, in tutto e per tutto il detenuto è soggetto a te. I concetti di infantilizzazione e prisonizzazione, non sono idee che si è fatto il criminologo o il sociologo di turno, è la realtà dei fatti: il carcere infantilizza, non hai denaro, qualcuno decide per te quando devi cenare, quando devi lavarti, quando devi accendere il televisore, quando devi comprarti la sigaretta, quando devi parlare con tua moglie, come devi parlare con tua moglie, come devi parlare con i bambini… questo non mi sembra si concili molto con la crescita dell’autonomia!

Poi, se autonomia significa opporti alle regole o sforzarti con fare tortuoso, da una parte di adattarti, dall’altra di rivendicare i tuoi diritti in un sistema che ti fa scegliere poco e nulla, non so come puoi uscirne. Nemmeno il più forte uscirà rieducato; al massimo, forse, con la convinzione di non commettere più reati. E se qualcosa di positivo riusciamo a determinare secondo me è perché abbiamo trovato una persona che in partenza ha già di suo qualcosa dentro che gli permette di venirne fuori.

Le condizioni di partenza di un carcere difficilmente sono conciliabili con una crescita di autonomia, quando Goffmann scrive Asylums tiene conto di una situazione ottimale del sistema, ma la situazione ottimale sono orari scanditi, sono diretta dipendenza da altri, richieste che tu fai e che non sai se verranno accettate. Quanto più aumenti l’autonomia e aumenti le aree del diritto (cioè posso esercitarlo e chiederlo), tanto più aumentano le giuste, pretese del detenuto; a quel punto il potere che tu hai comincia a diluirsi e cedere: potere e autonomia non vanno d’accordo; tu devi essere punito e quindi sottostare al mio potere.

Tutta una serie di attività e prescrizioni dell’ordinamento penitenziario servono a esercitare e affermare il potere. E’ difficile trovare in questa struttura la possibilità di crescita dell’autonomia. Anche il Gruppo della Trasgressione, tanto per citare un esempio, credo abbia fatto fare passi da giganti ai detenuti che vi partecipano, in una dimensione difficilissima, in una struttura che ha acconsentito alcune cose, però alla fine arriva un direttore che non vuole o un agente che in quel momento decide di chiudere le celle senza motivo e il detenuto deve avere una personalità molto forte per resistere e non ribellarsi. Quindi impara a farsi furbo.

La mia contestazione non è per le persone, una condizione che si evolve tra entrambe le parti è possibile, nei fatti ci sono ottimi agenti di polizia penitenziaria e ottimi detenuti e relazioni che si estrinsecano in maniera positiva. Io credo sia il carcere in sé e per sé, dal punto di vista funzionale prima che pratico, che non permetta scelte di autonomia per tutta una serie di motivi. Andate a vedere l’ordinamento penitenziario: devi ad esempio telefonare per dieci minuti agli orari che dico io, è tutto cadenzato. Nell’ambiente esterno l’autonomia è tutta un’altra cosa, il bambino viene aiutato ad uscire dalla campana dei genitori, a fare scelte più autonome, in carcere che scelte autonome fai?

Credo, comunque, con una vena di contraddizione per quanto dicevo prima, ma solo perché continuo a spostarmi tra quello che dovrebbe essere e quello che è,  che le relazioni positive che possano funzionare, l’elemento più facilmente accessibile a cui potere puntare, sia il rapporto umano. Non è un concetto enfatico. Io mi ritrovo in questi termini, a condividere la stessa umanità del detenuto, esercito il potere di direttore, perché mi è dovuto, sapendo che devo riconoscere nell’altra parte una persona, non un individuo che devo schiacciare o continuare a punire. La punizione è già il carcere, la privazione della libertà e bisogna riconoscere e difendere i diritti dei detenuti. Ma questo è un discorso che a volte rischia di essere pericoloso.

Il rischio oggi è che rivendicare la legge diventi eversivo nel senso che stravolgi una situazione di stallo. Credo poco che l’istituzione carcere, come concetto, possa far crescere le persone. Il carcere si smembra di fronte ai diritti, deve essere necessariamente la negazione dei diritti.

Il corpo della polizia penitenziaria, gli operatori tutti, dovrebbero allora trasformarsi e diventare i responsabili, i garanti dei diritti del detenuto, cioè far riferimento sempre e costantemente al principio di legalità che impegna entrambi. Il principio di legalità, impegna in primo luogo te che sei la concretezza del potere: l’esempio da seguire e il rispetto della legge deve essere il primo motore utile. Se guardiamo al carcere questa potrebbe e dovrebbe essere una direzione utile.

 

Una pena che punti alla rieducazione può prescindere dalla motivazione del condannato. E allora, quali strumenti, quali condizioni ritiene che possano attivare tale motivazione?
In modo astratto, riconoscere la propria illiceità, la propria colpevolezza ma tutto è poi condizionato da situazioni sociali che non forniscono una condizione paritaria ai detenuti.

Avete visto cos’è successo in parlamento quando le pene per la bancarotta fraudolenta sono state ridotte? Oggi il furto è punito più della bancarotta; non è un caso che la maggior parte dei tangentisti non sia in carcere. Ma non c’è nulla da scandalizzarsi, questo appare come un dato normale se l’ottica riferisce al solo sistema penale. E neppure è legato a specifiche ideologie. Per rifarci all’esempio su proposto, fu un governo  di centro-sinistra che approvò aumenti della pena edittale per i reati c.d. predatori.

Il riconoscimento dell’illiceità di ciò che hai fatto potrebbe essere il primo passo per poi pensare al reinserimento; ma cosa significa reinserimento? E quali strumenti hai per attuarlo? Dovresti avere tutte le condizioni e i mezzi per parlare seriamente di reinserimento e non utilizzare solo la pedagogia della parola. Noi diciamo: devi essere buono, devi essere bravo, devi studiare, devi lavorare ma poi dobbiamo sperare che queste condizioni si realizzino da sole.

La motivazione deve essere sostenuta anche da situazioni concrete, non può essere solo interna all’individuo. Se io detenuto so già che non avrò possibilità perché tu istituzione gli strumenti non me li stai dando, non so che tipo di motivazione potrei avere, le motivazioni non nascono dal nulla. Le motivazioni hanno bisogno di una soluzioni concrete, realizzabili, praticabili non possono nascere solo dall’interno e rimanere all’interno dell’individuo. L’impegno dell’individuo spesso, se non è vanificato, è limitato dalla realtà che gli sta attorno.

Se dico ad una persona che la porto fuori dal guado gli devo dare appigli di terraferma, non posso dirgli non commettere più reati e basta: la fiducia viene alimentata anche dalla possibilità di realizzare quello che tu vorresti stimolare.

Se vuoi solo interdizione e condizionamento lo puoi ottenere con altre forme, pensiamo ai campi di condizionamento cinesi o, spunto dalla letteratura, l’Alex di Arancia Meccanica, poi che un individuo dorma sotto i ponti o sia reinserito non sembra interessare, ma noi non vogliamo questo; vogliamo invece che la persona si inserisca nel contesto sociale, non commetta più reati ma abbia anche un utile ruolo nella società.

Se fosse attuabile l’art.3 della Costituzione, nell’idealità, forse non si avrebbe bisogno di pene. Se la società si dispiegasse armonicamente senza ingiustizie non si avrebbe bisogno di pene. Qualcuno diceva che il problema non è migliorare il Codice Penale ma trovare qualcosa di migliore del Codice Penale.

Occorre puntare sulla prevenzione: più servizi sociali e più possibilità tra cui scegliere, in un contesto armonico, riducono il margine di trasgressione, seppure essa è insita nell’uomo e di questo dobbiamo tenerne conto.

 

Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Nella relazione tra genitori e figli c’è un interesse e una maggior partecipazione rispetto al rapporto della legge coi suoi cittadini; il figlio è una parte di te stesso.

Nell’ambito della punizione legale questo amore non c’è e non è detto che debba esserci; è più un rapporto di natura meccanica, un rapporto causa-effetto con altre motivazioni, laddove il rapporto genitoriale è condizionato dal fatto che vedi nel figlio una prosecuzione di te stesso.

 

In particolare gli obbiettivi della pena decisa dalla Legge e quelli della punizione in famiglia hanno dei tratti in comune e/o delle differenze di rilievo?
Gli obiettivi comuni della punizione è che essa è un mezzo per ottenere qualcosa; nel caso del detenuto un cittadino che non commetta reati, nel caso del figlio un individuo che sia autonomo, bene inserito e direi anche sereno se non felice.

Le differenze stanno nella modalità di esecuzione e i risultati.

 

Le pare che possa essere di qualche utilità il confronto fra queste due realtà?
Sì, perché punizione in famiglia e pena decisa dalla Legge hanno radici comuni. Tornare alla genesi delle punizione aiuta o dovrebbe aiutare entrambe le realtà a migliorare, a raggiungere effetti positivi. L’analisi è sempre utile, ti porta non soltanto a considerare l’aspetto ideale ma anche a valutare l’aspetto concreto di una questione, ti induce ad aggiustarne e a rivederne i diversi aspetti.

Anche la pedagogia familiare non è mai stata unica nel contesto dei secoli, delle culture, di luoghi: i metodi educativi si sono evoluti e sono cambiati in relazione alle analisi che si sono fatte nel tempo.

Ragionare è sempre positivo; raffinare troppo il ragionamento però può farti correre il rischio di vedere se non l’inutilità dei costrutti, gli spettri creati. Nella sua cruda essenza la punizione è un male che viene inflitto volontariamente; punisci con l’obiettivo della cura, ma stai infliggendo un male. Se andassimo a questa crudezza disvelando tutto, rischieremmo forse di non sopportare la realtà. Il discorso è lungo e complesso, mi accorgo di accennare senza sviluppare il concetto, ma voglio dire che tra realtà, che è la nostra dimensione legati ai limiti umani, e idealità non sempre vi sono punti di contatto.

 

Lei è a conoscenza di altre società dove gli obiettivi e l’attuazione della pena siano significativamente diversi che da noi?
Prima ho parlato della società Cinese. I trasgressori in Cina, ma anche in Russia, non potevano che essere considerati soggetti patologici. Se una società parte dall’idea di avere costruito la società migliore che si possa idealizzare, è evidente che chi commette reati non può essere considerato una persona normale. Il trasgressore metteva in discussione la società, magari denunciandone anche il suo fallimento, per questo molti trasgressori venivano richiusi in manicomio o nei campi di rieducazione.

In generale credo che grosso modo le società, magari non allineandosi nei tempi, abbiano avuto le stesse evoluzioni, dalle pene immediatamente corporali,  all’introduzione del carcere o altre sofisticherie. Come diceva Beccaria, i secoli hanno visto tante pene crudeli che però si infliggevano per il bene dell’uomo!

 

Per concludere, ci sa dire qualcosa sulla punizione o sulla pena che faccia ridere ?
San Vittore è stato per molto tempo monitorato dal Comitato contro la tortura di Strasburgo. Quando avevamo 2400 detenuti e venne la commissione, si chiedeva come mai non ci fossero quelle tensioni che ci si poteva immaginare, ma si conducesse quasi una vita normale. I componenti del comitato erano di diverse nazionalità, attraverso gli interpreti spiegavo il concetto di punizione italiana raccontando loro una storiella…

Una persona muore, va all’inferno e viene ricevuta dal diavolo alla reception.

Il dannato è spaesato e il diavolo gli dice: Non si preoccupi, all’inferno non si è poi così negativi come sembra, abbiamo anche una possibilità di scelta. Abbiamo tre tipi di inferno, un inferno inglese, un inferno francese e un inferno italiano.

Posso scegliere?

Certamente, ci mancherebbe altro.

Siccome non sono molto esperto, potrebbe illustrarmi le diverse situazioni?

L’inferno inglese comporta questo: prima della colazione, prima del pranzo e prima della cena c’è pece bollente e botte in testa.

Beh, non è molto divertente, potrebbe illustrarmi l’inferno francese?

Sì, la pece bollente e le botte in testa le diamo dopo la colazione, dopo il pranzo e dopo la cena.

O prima o dopo, grosso modo mi sembra la stessa cosa. Quello italiano?

Dopo il pranzo, a volte dopo la cena, a volte prima, non si sa, però sempre di pece e sempre botte in testa si tratta.

Il dannato rimane perplesso: Scusi ma dov’è la differenza, a me cosa consiglia?

Le consiglio l’inferno italiano.

Ma perché?

A volte manca la pece, a volte manca il martello!