Giorgio MarinucciDocente di Diritto penale
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A cura di Giò e Rossella | Intervista sulla punizione | Le altre interviste |
Quali sono le funzioni della punizione?
C’è stato un periodo nella storia recente del diritto, in cui vari studiosi hanno proposto l’abolizione totale del diritto penale e la cessazione del diritto dello stato ad infliggere la pena e qualunque tipo di sanzione.
A questo proposito, c’è un apologo in cui si parla di un mondo in cui venga abrogata la norma sul furto. In questo mondo, prima Caio ruba la bicicletta a Tizio, poi Tizio va dai suoi parenti per organizzarsi e riprendere la bicicletta, ma anche Caio raduna la sua famiglia e si scatena una zuffa tra i due gruppi familiari che iniziano a lottare fra loro e ad espandersi nella città creando due gruppi in contrapposizione e distinti. Questo avviene fino a quando un potere centrale si organizza e punisce Caio per furto amministrando la pena.
Questa è la storia di seimila anni di diritto penale: si è passati dai gruppi ai clan più civilizzati ma non organizzati tra loro e, ad un certo momento, si è arrivati al nostro concetto di legge, cioè all’istituzione di un potere centrale che gestisce la pena e i sentimenti di vendetta.
I conflitti fra le persone non possono essere risolti negandone l’esistenza perché in questo modo si negherebbero automaticamente anche le ragioni che lo hanno provocato. La punizione è un modo per risolverlo.
Quali sono o sono stati i modi di attuare la punizione?
Nell’ambito della collettività organizzata, la storia del sistema penale è legata alle ragioni sociali ed economiche.
Nei secoli sono cambiati i modi e i motivi della punizione in tutte le civiltà. Nel secondo millennio si utilizzavano le punizioni corporali e la pena di morte per i reati gravi o la pena pecuniaria per i reati minori, poi con il bisogno di manodopera e l’incremento dei commerci si passa alla galera cioè la condanna al remo che è più economico.
Quando Beccaria dice che è meglio una pena certa e mite che una pena severa ma di incerta attuazione, ha certamente delle ragione umanitarie, ma anche delle ragioni economiche dovute al periodo storico in cui tutto ciò è avvenuto e in cui c’era bisogno di manodopera.
Che cosa si prefigge di ottenere colui che punisce?
Quello che indica la legge e la costituzione. Il giudice quando infligge la pena ha a disposizione una pena quantificabile e può darne il minimo, il massimo o restare a metà. Nel momento in cui il giudice si serve dei criteri con i quali scegliere il grado di punizione deve guardare alla gravità del reato, al tipo di motivazioni al reato e alla personalità dell’autore del gesto con i suoi precedenti e le sue condizioni famigliari e sociali.
In questo difficile gioco di equilibrio il giudice gestisce la pena, come non si sa perché non c’è una prevalenza di un criterio su un’altro.
La costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione e quindi la pena deve tendere verso il basso nella misura in cui deve essere minimamente dissocializzante. La tendenza nel nostro ordinamento è applicare le pene minime, quando il codice ne prevede tra le più alte nel mondo.
Cosa si aspetta la gente dalla punizione?
La punizione dipende anche dalle reazioni della gente, infatti una funzione dello Stato che punisce è quella di limitare la vendetta della società e dei congiunti della vittima.
Si può pensare ad esempio alla reazione di alcuni Stati nei confronti della criminalità minorile: nei paesi britannici c’è stato un periodo in cui si è pensato di non tollerare nessun tipo di trasgressione minorile perché questo era un problema particolarmente sentito dalla popolazione che di fronte al fenomeno delle baby-gang si è molto allarmata.
C’è stata dunque una totale reazione alla criminalità minorile e allora si sono instaurate pene detentive, arresti cautelari anche per non reati come i graffiti e il coprifuoco per i minori alle 21 di sera nelle strade della città.
Il potere dello stato è un surrogato del potere punitivo del singolo e dei gruppi sociali, molto meno aggressivo, molto più controllato.
Se si analizza l’espressione “Occhio per occhio e dente per dente”, questa rappresenta una riduzione della vendetta e del potenziale distruttivo della reazione del singolo e dei gruppi al fatto. Prima della costituzione del codice ebraico, per una vacca si poteva uccidere e quindi la reazione portava generalmente al linciaggio per ogni tipo di crimine e si poneva un problema di proporzione fra offesa e reazione all’offesa.
Ci sono una cinquantina o sessantina di processi al giorno in una città ma nessuno ne sa nulla. Si tratta dell’effetto preventivo del non sapere: se tutto fosse noto a tutti sarebbe la fine. Soltanto nei casi eclatanti le persone hanno modo di parlare e dare sfogo alle proprie paure e desideri di vendetta quando dicono ad esempio: “non è giustizia, doveva avere 30 anni e non 20”.
Con quali forme di potere è compatibile il ricorso alla punizione?
Dicesi pena una punizione inflitta dallo stato, ma se non parliamo dello stato, c’è ad esempio il mobbing in ufficio, in cui chi ha un potere può rendere la vita difficile e gestire dei danni nei confronti di una persona; il maestro a scuola può essere particolarmente severo e gestire il suo potere dando divieti in funzione del rispetto della disciplina. Chi ha un potere ha la possibilità di avere un ruolo di supremazia e questo accade nel lavoro, nella famiglia, nella scuola.
I rapporti e i ruoli cambiano nel tempo e quindi anche le persone che amministrano il potere. Ad esempio si passa dalla famiglia matriarcale e quella in cui c’è il padre padrone ecc. La relazione tra punitore e punito dipende dalle ragioni che spingono chi ha potere a punire.
Di solito, gli scopi della pena vengono raggiunti?
Questa è una domanda da sessanta milioni di euro. Una certa dose di condanne ha una funzione placativa nei confronti della collettività. È come un tabù: i cattivi stanno chiusi lì dentro.
Quali motivazioni vivono verso il condannato il giudice che punisce e gli operatori preposti all’espiazione della pena?
Sono stato giudice solo una volta, come membro della Corte Costituzionale incaricata di giudicare. Parlo del processo Lockheed in cui erano indagati dei ministri (La Corte allora aveva questa giurisdizione) per tangenti legate all’acquisto degli aerei. Ho solo questa esperienza di giudice ma mi ha fatto capire con certezza come l’entrare nel ruolo provoca un cambiamento, una deformazione.
Se uno fa il giudice di professione, la capacità di mantenere il distacco è una virtù molto difficile. Ho sempre provato a inculcare nei miei studenti l’idea che loro non dovranno essere in nessun modo dei moralizzatori, e cercare di essere sereni ed equilibrati ma è molto difficile. C’è chi fa questo lavoro e lo fa bene.
La gran parte dei reati è di ordinaria amministrazione, ci sono dei giudici di maggior esperienza che essendosi formati nell’idea del giudice professionale, giudicano ormai in maniera abbastanza distaccata.
Il livello di selezione e il ruolo degli studenti che diventano giovani giudici si è innalzato negli ultimi tempi: dal punto di vista professionale, economico e di status. Questo è un bene, complessivamente dà maggiore serenità nel giudizio e controllo sociale anche nei centri più grandi.
Sugli operatori non saprei dire, si dice spesso che carcerati e carcerieri vivono le stesse condizioni e che all’interno del carcere si crea una sottocultura in cui primeggia il più forte e chi ha più soldi ecc…
Esiste una pena ideale? Una pena coerente con il fine che si propone?
La pena ideale è il premio. Ma no, no, non esiste. Avete letto Dante? Nella Divina Commedia faceva una meravigliosa straordinaria metafora rifacendosi all’idea di contrappasso, a “occhio per occhio e dente per dente”, cercava una pena che fosse uguale al danno commesso.
Quali tipi di pena e di applicazione esistono oggi nel nostro paese?
La Costituzione Italiana prevedeva la pena di morte solo per reati di guerra, giudicati dal Tribunale militare; oggi queste leggi sono state abrogate ma potrebbero essere ripristinate. Poi c’è l’ergastolo, la reclusione, l’arresto, la contravvenzione e l’ammenda. Ci sono altre pene di recente conio, che sono la permanenza domiciliare, altre pene sostitutive come la semilibertà, l’affidamento: sono pene che sostituiscono le pene principali.
E quali ritiene più utili allo scopo?
La storia della pena è una storia lunghissima. Esistono diversi orientamenti per valutare l’utilità di un tipo di pena.
Il movimento che negli ultimi anni ha guadagnato molto spazio è la pena pecuniaria che ha sottratto terreno, per reati meno gravi, alla pena detentiva. Però la pena pecuniaria è una pena che suppone una società economicamente prospera, dove la gente è in grado di sopportare anche un sacrificio economico, anche gente che va da condizioni disagiate a medie.
Anche se in alcuni sistemi (es. in Germania e in Scandinavia questo è avvenuto) si commina una pena che il reo possa sopportare, in momenti di crisi economica questo non è sempre praticabile.
La pena detentiva è stata resa non applicabile in certi sistemi: non perché sono diventati buoni, ma per una ragione pratica e deprecabile: perché le carceri non ci sono e perché ci sono troppi procedimenti penali.
Per questi motivi in Italia ad esempio si è inventato il patteggiamento, un accordo fra le parti (pubblico ministero e reo confesso, accusa e difesa); un meccanismo che permette di sgombrare il tavolo del magistrato. Questi metodi servono anche per svuotare le carceri in quanto riducono, al momento della condanna, la durata della pena [con lo sconto di 1/3 della pena prevista dalla legge].
Io li ritengo dannosi perché non sono dettati dall'obiettivo di rinnovamento o di promuovere l'evoluzione del condannato, ma da ragioni di cattivo funzionamento della macchina dello Stato; da un vantaggio immediato.
Non ritengo utile la pena di morte, laddove prevista. Mai. E non solo per ragioni umanitarie. Non funziona come deterrente al momento del reato, non vedo come potrebbe. E c’è anche il rischio di errore, di condanna (irreversibile) di innocenti.
Quali sono le condizioni ottimali per raggiungere lo scopo della pena?
Il sistema penitenziario prevede la presenza di operatori che svolgano la funzione di aiuto e di sostegno anche psicologico. Io qui ho il massimo grado di incompetenza.
Penso che la legge debba dare degli aiuti piuttosto che rieducare. Non si deve comportare come nel film “Arancia Meccanica” [Stanley Kubrick 1971] in cui il sistema cerebrale viene influenzato, cambiando la personalità. Oppure la castrazione chimica o terapeutica proposta di recente in alcuni Stati per categorie di reati come stupro o pedofilia. La legge non può tollerare queste idee.
Ha dei suggerimenti per andare in questa direzione, ovvero per aumentare la probabilità che la pena raggiunga il suo scopo?
Forse ci vorrebbero attività come la vostra. Il campione dei detenuti che fa parte del vostro Gruppo della Trasgressione, anche se forse poco rappresentativo perché piccolo, mi sembra che lavori bene.
Forse ci vorrebbero delle persone dirette semplicemente a rendere meno distruttivo il carcere, meno dannoso, specialmente nelle condanne a pene lunghe. Aumentare in carcere il numero di persone che vi lavorano con fantasia, passione e professionalità, con metodi e modi che non riesco a indicare con precisione anche perché non li conosco, probabilmente le persone detenute avrebbero dal carcere meno effetti dannosi.
Per condanne con pene brevi, questi effetti sono ancora più dannosi, e nessun operatore sarebbe in grado di riparare.
Quale tipo di relazione fra operatori e condannato è più confacente al conseguimento dell'obiettivo evolutivo o rieducativo della pena?
Credo che se riunissimo qui i massimi esperti di Diritto Penale italiani, francesi, tedeschi, austriaci ed inglesi, non riusciremmo a dare una risposta adeguata. Anche perché la maggior parte dei miei colleghi non ha mai messo piede in carcere né avuto rapporti col sistema carcerario! Ne conoscono qualcosa, per studi fatti da altri (studiosi di criminologia o penologia ad esempio). Come un medico conosce ricerche fatte da specialisti, ma si appoggia al loro sapere nel loro campo. E’ anche una esigenza culturale; non possiamo pretendere di sapere ogni cosa o di poter ripercorrere tutte le strade della conoscenza umana.
Una pena che punti alla rieducazione può prescindere dalla motivazione del condannato?
Vi sono alcune persone che possono essere aiutate. L’aiuto va offerto e non imposto. Anche perché le porte dell’animo si aprono dall’interno.
Ad una persona adulta e formata forse la privazione della libertà è sufficiente; è una condizione diversa offrire aiuto a una persona giovane, non formata o non acculturata.
Se ci sono, quali sono gli effetti positivi del carcere?
Il carcere non ha effetti positivi, è una amara necessità.
Parliamo dei punti di contatto, delle analogie e delle differenze che esistono fra la punizione nel rapporto genitori-figli e la pena inflitta dalla legge...
Probabilmente i genitori sono più coinvolti emotivamente, nel bene o nel male.
Un giudice solo nella peggiore delle ipotesi è coinvolto emotivamente, è di parte, destra e sinistra, fa il tifo per la Lazio ecc.
Le motivazioni che portano un genitore a punire possono essere le più diverse, buone o cattive, diverse nelle epoche e per il clima familiare. Nel passato ad esempio le madri dicevano “quando arriva papà ti faccio punire” ed il padre era effettivamente chiamato a esercitare il ruolo e la funzione di “agente di polizia”.
Le pare che possa essere di qualche utilità il confronto fra queste due realtà?
E’ possibile, sì. Credo che ci siano anche degli studi sull’argomento. In famiglia non ci sono solo punizioni, ma anche premi. Lo stato in genere non premia, eccetto i vantaggi nella riduzione della pena.
Per concludere, mi sa dire qualcosa sulla punizione che faccia ridere?
Questa intervista!
E cosa c'entra la pena?
La prof.ssa Tirelli ha minacciato di non portarmi quel kg. di cioccolato fondente che abbiamo concordato come premio se non mi fossi sottoposto a questa vostra indagine.