La pena nel Medioevo


Stefania Romanelli

L’esecuzione delle sanzioni penali nella società medioevale

Nelle diverse epoche la storia dell’esecuzione della pena ha visto prevalere differenti sistemi punitivi in relazione alle varie fasi di sviluppo economico.

Dopo il 1200, benché la popolazione dell’Europa occidentale e centrale continuasse a crescere, le condizioni sociali delle classi inferiori erano relativamente favorevoli, soprattutto nelle campagne. Il costante aumento della forza lavoro consentiva ai servi della gleba una possibilità di fuga e di libertà, verso la città.

I feudatari tesero quindi ad adottare nei loro confronti un trattamento attento che evitasse il prodursi di tensioni, assicurando la coesione sociale. Il diritto penale funzionò come strumento di difesa della gerarchia sociale, garantito da una forte tradizione, dall’appoggio religioso e da un sistema di dipendenza sociale.

Quando qualcuno commetteva un reato contro la decenza, la pubblica moralità, la religione, se uccideva  o feriva, si teneva un raduno di uomini liberi, i quali pronunciavano il giudizio e costringevano il colpevole a pagare una penance, in maniera da non far degenerare la vendetta in faida e anarchia. In assenza di un potere centrale e di un sistema punitivo di Stato, in una situazione in cui la minima contesa poteva porre in pericolo la pace, la prevenzione del delitto fu affidata al timore della vendetta della parte offesa e l’obbiettivo della pace fu perseguito dalla legge penale tramite l’imposizione di pene pecuniarie.

Le distinzioni di classe si manifestarono nelle penance: esse erano fissate in base allo stato sociale del reo e di quello della vittima. Tale sistema fu uno dei principali fattori dell’evoluzione della pena verso l’introduzione delle pene corporali, per l’impossibilità da parte delle classi inferiori di far fronte al pagamento delle pene pecuniarie. Lo statuto della città di Sion del 1338 formalizzò la trasformazione della penance in pena corporale, assegnando al carcere questa funzione.

Il carattere privatistico del diritto penale nel primo medioevo, fu dovuto a tre elementi:

 

Le condizioni delle classi inferiori cominciarono a peggiorare nel XV secolo. Superato l’iniziale declino demografico dovuto alla diffusione in  tutta Europa della peste, l’incremento della popolazione, soprattutto urbana, portò al progressivo esaurimento delle terre agricole e dei raccolti e all’aumento del numero degli oppressi, dei disoccupati e dei nullatenenti. La crescente forza-lavoro permise ai proprietari di sfruttare più facilmente i contadini a loro soggetti, portando ulteriore miseria e malcontento. Alcuni sforzi furono intrapresi per limitare l’incremento delle nascite, ma essi non ottennero altro risultato se non l’aumento dei figli illegittimi.

Lo sviluppo produttivo non riuscì a seguire l’aumento demografico e le dimensioni ridotte dei centri urbani non consentirono una vera integrazione delle masse che migravano verso le città; le strade pullularono di nomadi, derelitti, vagabondi e mendicanti. Del resto nessuna politica sociale venne adottata per far fronte a queste condizioni e l’unica risposta fu rappresentata dalla formazione di truppe mercenarie, utilizzate da principi ed autorità per rafforzare il proprio potere.

Questa offerta di mercenari a poco prezzo minò anche la posizione dei cavalieri feudali, costretti a rivolgersi al brigantaggio di strada adottando come pretesto l’esigenza di difendere i ricchi mercanti dalle masse impoverite e dai contadini ridotti ormai a derubare. Lo sfruttamento delle masse consentì alle famiglie più importanti di ammassare enormi fortune: alla fine del XV secolo l’accumulazione di capitale aumentò bruscamente.

La comparsa di nuove forze non mutò le forme istituzionali ma ne alterò scopo e funzionamento: l’organizzazione corporativa divenne lo strumento per consolidare il potere dei “capitalisti”. L’andamento dei salari rappresenta bene le trasformazioni sociali di questo periodo.

Si assistette allo sviluppo del modo di produzione e del sistema sociale in senso capitalista e alla oppressione dei lavoratori urbani e rurali, con conseguenti manifestazioni di malcontento e di vera e propria lotta assimilabile a quelle del XIX secolo: scioperi per ottenere l’aumento degli stipendi, boicottaggi, serrate. Nel corso del XV secolo lo scontento diventò sempre più vivo tra i ceti poveri delle campagne e delle città e tra la gente dilagò la consapevolezza dei limiti del sistema, favorita dalla libertà di parola che caratterizza questo primo periodo. 

Il divario di condizioni tra masse povere e famiglie ricche, ma soprattutto la disastrosa situazione delle prime, provocò un movimento di lotta di classe che segnò la transizione al modello capitalista, che portò alla creazione di un sistema di diritto penale severo nei confronti delle classi inferiori. Il dilagare della criminalità all’interno delle fasce proletarie più duramente colpite dalla miseria, specie nelle grandi città, motivò gli strati sociali più favoriti a pretendere pene più pesanti.

La valutazione del fatto e il trattamento del reo si diversificò ulteriormente: il sistema delle punizioni rimase invariato (pene corporali e pecuniarie), ma venne applicato differentemente a seconda del ceto sociale di provenienza della vittima e del colpevole. La poena extraordinaria doveva essere determinata dal giudice secundum qualitatem delicti et personae.

Nei confronti dei reati commessi da membri delle classi superiori, il sistema penale non era particolarmente severo: casi di natura penale per i quali era prevista la pena capitale potevano essere negoziati e risolti con un compromesso. A questa diversa applicazione delle sanzioni in base al ceto del colpevole, corrispondevano in vari paesi speciali privilegi: alcune punizioni non venivano applicate a determinati strati sociali ed erano sostituite da altre, oppure modificate nelle loro modalità esecutive. Ancor più importante dei privilegi di casta fu la possibilità per il ricco, in un ampio numero di casi, di sostituire le pene corporali o la pena di morte con una pena pecuniaria o, nei casi più gravi, con il bando. Coloro che avevano denaro sufficiente potevano quindi comprarsi l’immunità, mentre il ceto non abbiente, in grande maggioranza, non poteva sottrarsi al duro trattamento.

Parallelamente al progressivo impoverimento delle masse, le punizioni divennero sempre più severe nel tentativo di frenare il dilagare dei delitti. Le punizioni corporali (esecuzioni, mutilazioni, frusta) aumentarono fino a divenire la forma dominante di pena e non più quella sostitutiva. Si auspicava che la pena fosse più mite in caso di dubbio circa la colpevolezza, ma nella realtà questi suggerimenti non erano seguiti.

Anche la procedura penale fu decisamente strumentalizzata contro le classi inferiori, per le quali furono create procedure speciali. Attraverso la morte, la mutilazione, il bando, il marchio a fuoco e la flagellazione venne sterminata la gran parte dei delinquenti professionali (assassini, rapinatori, ma anche vagabondi e zingari). Casi di ruberie o di azioni che comportavano turbativa dell’ordine vennero identificati sotto il concetto di faida. La Constitutio Criminalis Carolina di Carlo V riguardante la faida legittima e la ribellione, previde un’ampia gamma di casi che garantivano l’immunità per una serie di atti perpetrati dalle classi superiori. Venne abolita la risoluzione privata di dispute su azioni criminali, come il furto, e non venne più applicato il diritto d’asilo.

Le azioni vennero qualificate come illeciti penali non sulla base del bene danneggiato, ma in relazione alla posizione dell’accusato: lo stesso reato veniva punito molto diversamente se commesso da persona di basso lignaggio o da un vagabondo. Così il termine villano, per esempio, poiché i criminali provenivano per lo più dalle classi inferiori, passò dal designare l’appartenenza ad un certo ceto sociale ad esprimere un giudizio di inferiorità morale.

La nascente borghesia urbana si preoccupò principalmente di creare un sistema efficace nella lotta ai reati contro la proprietà, chiedendo alla Corona di intensificare l’attività repressiva e protestando contro l’abitudine di concedere clemenza. Questo diritto di perdono, che veniva esercitato dai principi senza tenere conto della gravità del caso e del grado di colpevolezza del reo, costituì uno dei maggiori antidoti contro la severità del sistema giudiziario. La pena pecuniaria, per lo più riservata ai ricchi, di trasformò da strumento di reintegrazione della parte offesa in strumento di arricchimento di giudici e funzionari di giustizia, mentre per i poveri rimanevano le punizioni corporali. La gamma di sanzioni venne ampliata con il crescere della criminalità di massa.

Se fino al XV secolo la pena di morte e le mutilazioni gravi furono utilizzate solo in casi estremi per superare le difficoltà del complesso sistema di pene pecuniarie, in seguito esse assunsero il ruolo di pene usuali, quando il reo  era ritenuto un pericolo per la società. La pena di morte non venne più comminata in casi estremi, ma come mezzo per liberarsi di individui pericolosi e perciò veniva prestata scarsa attenzione all’accertamento della colpevolezza.

Le stesse modalità esecutive divennero pian piano più brutali: le autorità ricercarono nuovi metodi per rendere la pena capitale più dolorosa e la sostituzione di questa con varie forme di mutilazione non rappresentò certo un tentativo di mitigazione della pena. Anzi la mutilazione servì all’identificazione del criminale (taglio delle mani, delle dita, delle orecchie, della lingua, asportazione degli occhi, castrazione). Oltre al dolore insito nella pena stessa, il condannato si vedeva precludere la possibilità di trovare un’occupazione onesta e non gli rimaneva altra strada se non quella del crimine, che lo avrebbe prima o poi fatto cadere in pene più severe. Se talvolta le mutilazioni non lasciavano in vita che una larva di uomo, altre volte provocavano la morte del condannato. In questo caso il decesso era tuttavia imputato a cause naturali.

La stessa pena dell’esilio incideva in maniera molto diversa se applicata a persone di diverso ceto sociale: i poveri ne venivano segnati in modo pesante, mente per i ricchi essa poteva costituire un’occasione per un viaggio di studio, per stabilire nuovi insediamenti d’affari o addirittura un servizio diplomatico per la propria città, che preludeva ad un ritorno rispettato.

L’aumento demografico e la diminuzione del prezzo del lavoro portarono ad una svalutazione del valore della vita umana e il diritto penale divenne strumento di contenimento della popolazione. Le popolazioni del tardo medioevo non potendo sperare in un destino che le sollevasse dalle loro misere condizioni, vivevano in un’atmosfera di oppressione, odio e disperazione.

La superstizione e la persecuzione delle streghe si andò diffondendo sempre più: le classi inferiori tesero a scaricare la loro rabbia su questi “rappresentanti terreni dei poteri sovrannaturali” cui attribuivano l’origine delle loro disgrazie e le autorità sfruttarono questo odio di massa per distrarre l’attenzione. Il delitto di stregoneria poteva consistere in null’altro che nell’erronea attribuzione di poteri, nell’aspetto personale, negli abiti eccentrici.

Anche gli ebrei furono soggetti a persecuzione da parte delle masse, che vedevano la propria povertà crescere insieme alla ricchezza di quelli. Essi furono ritenuti responsabili dell’impoverimento generale, soprattutto per le attività usuraie da loro compiute, e rappresentarono quindi un ottimo capro espiatorio.

Furono le masse a richiedere modalità di esecuzione delle pene e la loro crudeltà perché le esecuzioni, spettacolo primitivo e brutale, rappresentavano per costoro una forma di perverso divertimento. Se il carattere pubblico delle esecuzioni si riteneva utile a fini deterrenti, in realtà esso tendeva ad alimentare e soddisfare il sadismo latente degli individui. La varietà delle torture inflitte toccò in questo periodo il suo apice: la questione essenziale non fu l’individuazione dei reati punibili con la morte, perché ormai a ogni delitto poteva conseguire la pena capitale, ma le modalità di questa (si legge di esecuzioni eseguite col coltello, con la mannaia, con la spada, di teste tagliate con tavole di legno o con aratri, di gente bruciata viva o lasciata morire di fame e sete o di dissanguamento, di chiodi infilato nelle mani, negli occhi, nelle spalle, nelle ginocchia, di strangolamenti, affogamenti, sventramenti, di torture sulla ruota o con tenaglie ardenti, di corpi lacerati, segati e molto altro).

La concezione della pena nella società medioevale

L’atteggiarsi della società medioevale è il risultato della fusione tra concezione pagana e concezione cristiana della pena. Dio è per i cristiani l’essere unico, origine e fine di tutto, cui tutto deve essere ricondotto. Omnis potestas a Deo, e a questo principio non sfugge nemmeno il diritto di punire. Le pene sono un’attribuzione specifica della divina giustizia la quale è esercitata dalla Chiesa in nome di Dio (teoria della delegazione divina) con un mandato senza limiti che investe sia i precetti etici sia quelli di ordine giuridico. L’amministrazione della giustizia da parte della Chiesa evidenzia come nel medioevo l’aspetto religioso e quello temporale siano inscindibili: le norme giuridiche emanate dalla Chiesa completano la sua rilevanza spirituale ed hanno vero carattere prescrittivo.

La tradizione biblica fonda il principio del libero arbitrio, corollario del dogma del peccato originale e della redenzione: all’uomo è data la duplice possibilità di fare del bene o del male. Sulla base di questa idea, prendono forma le concezioni attinenti alla responsabilità penale soggettiva.

Dalla teoria della delegazione divina discende una concezione della pena come vendetta pubblica ed espiazione: l’esperienza spirituale volta ad evidenziare il vero e il buono, il dolore deve essere vissuto e offerto in funzione di redenzione, quale che sia il mezzo utilizzato. In quest’ottica la prigione, che era stata applicata dal diritto romano solo in funzione preventiva in attesa del giudizio, ha nel medioevo lo scopo di isolare il condannato per offrirgli l’occasione di meditare sulla sua colpa e pentirsi.

L’azione della Chiesa in ambito criminale comporta un’evoluzione nel senso dell’assunzione dell’intensità della volontà criminosa a criterio per la commisurazione della pena. I padri della Chiesa furono dei “sottili indagatori dell’animo umano” e fecero emergere la componente volontaristica del delitto nel tentativo di opporsi agli usi barbarici, introducendo come mezzo di mitigazione della pena la tregua di Dio e il diritto d’asilo e si sforzarono di rendere sempre più pubblico il carattere della sanzione. Il contributo del Cristianesimo all’evoluzione della penalità consiste quindi nella massima valorizzazione dell’interiorità spirituale.

L’apparato ideologico del modello cattolico gravitava attorno al sospetto e a due possibili comportamenti, collaborativo e non: di conseguenza ogni procedura inquisitoria, dall’interrogatorio alla tortura, aveva lo scopo di indurre alla confessione, e quindi ad una dichiarazione di colpevolezza, o di acclarare con piena certezza l’innocenza dell’inquisito. Il trattamento dell’inquisito veniva condotto basandosi su questa distinzione: le celle avevano la funzione di indurre a riflettere, mettere alla prova o punire; l’isolamento, massima misura di pressione sulle coscienze, riassumeva il rituale della sottomissione e dell’esclusione, affliggendo e discriminando.

Ancora nel 1694 il sistema inquisitorio non era stato abbandonato, anzi venne potenziato e separazione ed isolamento divennero parte integrante, se non caratterizzante, il rituale giuridico e la procedura inquisitoriale. La persona sottoposta ad isolamento, cui la Chiesa non negava la possibilità di essere riaccolto nella società, doveva però esternare il proprio pentimento e la propria sottomissione, altrimenti l’incertezza sulla sua colpevolezza o innocenza lo relegava nella cerchia dei sacrileghi e lo condannava alla cella buia e isolata, massima punizione per il disprezzo delle leggi comuni. La mancanza di collaborazione era considerata in questo periodo, in cui denunciare gli infedeli risultava un obbligo, eresia delle eresie. Il recupero del pentito si manifestava quindi come riammissione nel corpo sociale. L’isolamento aveva quindi un significato simbolico che comprendeva pratiche terribili in vista del duplice fine della disciplina e della “pedagogia” sociale. L’isolamento prefigurava ed ispirava le modalità future di detenzione. 

S. Agostino elabora una teoria della giustizia in chiave di retribuzione divina: Dio è giudice, giudicò Adamo e continua a giudicare gli uomini. La sua volontà è espressa nei libri sacri e costituisce la Legge, la cui infrazione comporta tre tipi di pena: la dannazione (cioè la retribuzione con un male eterno), la purgazione (cioè la retribuzione con un male transitorio) e infine la correzione. La pena è quindi un’istituzione divina, nella quale Dio retribuisce il male con una pena che sia commisurata al delitto, ma non necessariamente secondo criteri quantitativi o qualitativi.

Esponente della Patristica, la filosofia cristiana dominante nel periodo medioevale, fu San Tomaso d’Aquino, il quale si discosta da S. Agostino nell’attribuire alla legge tre diverse valenze: come volontà divina la legge è lex divina et aeterna; come manifestazione della volontà divina la legge è lex naturalis; infine come legge positiva, cioè creata per provvedere ai mutevoli bisogni dell’uomo, è lex humana. Fondandosi il diritto di punire sulla legge, essa non poteva rimanere sprovvista di una sanzione per ogni tipo di norma violata: la violazione della lex divina è punita con pene divine, la violazione dell’ordine naturale è sanzionata con pene naturali e infine la violazione della legge umana dà origine alla repressione da parte del potere spirituale e temporale, nel cui esercizio l’autorità civile deve conformarsi alla giustizia divina. La pena rientra pertanto in quella tipologia di giustizia cd. commutativa che rende uguale per uguale e dalla quale sorge il concetto di contrappasso, che caratterizza il periodo del Medioevo.

Tomaso assegna alla pena anche una funzione intimidativa: per ottenere ubbidienza e per distogliere gli uomini dalla commissione di delitti la legge deve incutere timore tramite la minaccia di un male. Ma si è ancora lontani dalla concezione utilitaristica della pena: l’intimidazione è da considerarsi un fine secondario mentre quello primario rimane il fine morale-retributivo.

La mentalità penalistica medioevale si riflette soprattutto nella Commedia dantesca, nella quale la raffigurazione dell’ordine divino è in stretta analogia con quello umano. I delitti vengono qualificati come peccati e ciò sottolinea la valutazione dell’aspetto soggettivo dell’azione criminosa. La ripartizione dei peccatori in incontinenti, ingiusti, violenti e fraudolenti è in stretta analogia con la moderna suddivisione dei delinquenti in passionali, violenti, delinquenti nati e delinquenti abituali. Le pene si distinguono in pene temporanee e pene perpetue: le prime espressione di una concezione di emenda della pena, le seconde di una concezione retributiva che pone il proprio criterio di comminazione nel contrappasso, per cui chi ha cagionato un male ne deve subire uno di egual misura.

E proprio il concetto di contrappasso informa di sé tutta l’opera nelle sue varie accezioni: il male della pena può essere, qualitativamente e quantitativamente, uguale a quello prodotto dal delitto; può essere l’opposto del piacere che il reo ha cercato di procurarsi con l’azione criminosa; può consistere nella privazione del bene che il peccatore ha disprezzato; può essere una sofferenza che richiami in via analogica il delitto. Dante collega dunque strettamente la pena alle cause originanti il delitto, creando uno stretto legame tra i fattori psicologici che hanno determinato la commissione dell’azione criminosa, le conseguenze da questa scaturenti e la sanzione ad essa corrispondente in modo da ottenere la redenzione del condannato.