Il male e il conflitto

Luca Raineri

  12-04-2005
 

“… ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene. Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere.”

G. Leopardi, Operette morali, Dialogo di Timandro ed Eleandro

 

 

 

 

 

 

Ho visto un vecchio film di Pasolini, i “120 giorni della città di Sodoma”, nel quale si narra di un gruppo di giovani che, al termine della seconda guerra mondiale, viene letteralmente acquistato da alcuni anziani fascisti, segregato in una lussuosa villa, e qui addestrato alle pratiche sessuali più raccapriccianti e degradanti. L’amore fra i membri vi è assolutamente proibito e punito con la morte, mentre si assiste continuamente a scene di coprofagia, sadismo e violenza gratuita e immotivata. Al termine del film si resta senza nessun perché, e con l’impulso di vomitare.

Ho letto “La banalità del male” di Hannah Arendt. Il titolo è già di per sé una provocazione: non c’è nessuna necessaria perversione, nessuna mostruosità, nessuna depravata malvagità nel compiere il male. Nella quotidianità di un padre di famiglia rispettabile e fin anche affettuoso possono essere compiuti con lucidità i più orrendi crimini; non è fiction, è storia, è la realtà del nazismo, nella quale uomini normali di giorno mandavano allo sterminio nei lager milioni di innocenti; quando tornavano a casa giocavano allegramente con i loro bambini, suonavano il violino, firmavano petizioni per la tutela della natura e ricoprivano di cure e affetti il proprio amato cagnolino. E se si macchiavano delle più orrende nefandezze che l’umanità abbia conosciuto, lo facevano –appunto- banalmente, come si assolve a un qualunque dovere quotidiano o d’ufficio, con noia quasi! Spedivano bambini nei forni così come si spedisce una lettera al capo-ufficio.

Ho visitato a Torino la mostra di pittura, organizzata da Vittorio Sgarbi, intitolata “Il male, esercizi di pittura crudele”, e non ho potuto fare a meno di constatare come il tema della malvagità, della assoluta assenza di pietà (cioè l’essere spietati) accompagni la storia dell’umanità da sempre. Ed è sorprendente scoprire con quale gusto morboso i pittori di ogni epoca abbiano ritratto, fin nei minimi dettagli, delitti, scene di omicidi, accoltellamenti, teste di Giovanni Battista sgozzate, corpi massacrati di nemici esibiti come trofei.

Infine, per un recente esame, ho studiato Hobbes, filosofo inglese che produce lunghi e dettagliati elenchi nel cercare di dimostrare quanto l’uomo sia essenzialmente cattivo, e portato alla naturale rivalità e ostilità nei confronti dei suoi simili. E, in effetti, non è facile dargli torto: possiamo negare che molto spesso la considerazione dell’utilità individuale prevalga sul rispetto dei propri simili? Proprio noi, qui, in un carcere, possiamo dire che non è vero? E addirittura, anche senza alcun interesse individuale, possiamo negare che spesso abbia la meglio su di noi un desiderio di affermazione e di sopraffazione? E la competizione, il desiderio di primeggiare, la rivalsa, la pretesa invincibile di avere ragione, di ostentare le proprie ricchezze e i propri successi non mi sembrano poi così estranee alla nostra società e al nostro comportamento quotidiano.

Ma non posso esimermi dal considerare che sono favole belle quelle che ci raccontano che gli esseri umani sono tutti fratelli, e che la malvagità, la crudeltà, che sia gratuita o finalizzata, è solo un’orrenda perversione dell’animo umano. Storie da anime pie, buone per il catechismo. La verità è che anche la più immotivata cattiveria non è affatto estranea all’animo umano, di qualunque essere umano.

Baden-Powell, il fondatore del movimento scout, diceva che in ogni uomo, anche in Hitler, esiste in fondo in fondo almeno un 5% di buono. Sarà anche vero, anzi sono convinto che lo sia. Ma certamente esiste almeno altrettanto di malvagio in ognuno, un 5% di invincibile pura cattiveria che riposa nell’intimo anche del più santo dei santi. Ora potrebbe essere interessante capire che cosa sia il restante e preponderante 90% di ciascuno. Cos’è? Cioè: cosa siamo? È massa inerte? E’ il nostro carattere? È una possibilità che si determina di volta in volta a seconda delle circostanze? O l’oggetto della nostra auto-educazione e scoperta di noi stessi?

Ebbene, c’è un 5% di pura e spietata malvagità che dimora in me. Cosa me ne faccio? Il saperlo non mi tranquillizza più di tanto. E sapere che questo vale anche per te che mi stai di fronte mi rassicura ancor meno. Cancellarlo è impossibile! Dimenticarlo e cercare di non pensarci ancor più pericoloso! Probabilmente il conflitto è una situazione alla quale mi devo rassegnare, perché è costitutiva dei rapporti fra le persone. Già, gli esseri umani non sono naturalmente anime candide e completamente votate all’altruismo e all’amore disinteressato del prossimo, ed è impossibile costringerli ad esserlo, e probabilmente non è nemmeno auspicabile.

Gravati da questo ineludibile capitale e forti della coscienza di averlo, forse, non rimane che impegnarsi quotidianamente nel cercare di costruire relazioni, legami, rapporti che ci impegnino reciprocamente nel riconoscimento del nostro magma, ma anche nella definizione e nella costruzione del campo e della direzione in cui orientarlo. Forse affondare la zappa giù nella terra e lavorarlo non è meno umano, né meno gratificante che subirlo; in fondo abbiamo come buoni compagni di lavoro i nostri amici lombrichi.