The World is yours

Enzo Martino

31-03-2005  

Quando siete venuti al mondo, la mia felicità sembrava che non me la potesse portare via nessuno; dalla gioia ho pianto.

Per me è molto difficile piangere: ho troppo rancore in corpo, piangendo dimostrerei la debolezza che è in me. Ancora non mi viene facile esprimere le mie debolezze, almeno con gli altri è così; solo vostra madre le conosce, con lei le abbiamo esplorate profondamente.

Voi, non pensate di non essere degni di conoscerle! Come sapete, sono in carcere, e qui non c’è possibilità di esprimerle. Parlare di discorsi così delicati e intimi richiederebbe un tempo e delle condizioni che il colloquio non permette. Come vi accorgete ogni volta che c’incontriamo, in quella stanza, parlarci spontaneamente non è facile.

Un giorno questo dovrà finire, noi riusciremo a parlarci con quella spontaneità che oggi è difficile da raggiungere. La mia pena è non potervi parlare come vorrei, farmi conoscere da voi, i miei figli, la mia gioia.

Adesso siete ragazzi. Io non sono felice, non mi vedo come vorrei. Anche quello stronzo di specchio, tutte le volte che lo guardo, mi dice sempre le stesse cose: il tempo trascorre, basta guardare i capelli sempre più grigi.

Mamma mi dice delle belle cose di voi, ma capisco che sicuramente ne nasconde delle altre. Questo perché ci ama. Voi due, lo avete capito questo, vero? Credo che di voi mi posso sentire fiero, perché siete educati e studiate diligentemente. Ma, in fin dei conti, chi sono io per dirvi cosa è giusto e cosa non lo è?

Ho forse fatto meglio di voi? Queste domande le pongo a me stesso sempre più spesso, però so anche che un padre ha delle responsabilità: una è quella di non mollare mai, un’altra è cercare di ricordare l’importanza della vita.

Vi chiedo di ricordare una cosa: le cazzate, di solito, viaggiano in compagnia, si inizia da quelle piccole per poi ritrovarsi in problemi più seri. Ecco, questo lo ripeto ogni qualvolta ci incontriamo, e siccome ci vediamo quasi due volte all’anno, ve lo ripeto anche per telefono.

Bella storia il telefono, tu figlio maggiore, cominci a mancare agli appuntamenti per parlare con me, come mai? La mamma dice che studi, ogni volta ne trova una nuova per non darmi altri pensieri. Lei sa già e tu devi sapere che, dopo dieci anni chiuso, tutto s’ingrandisce nella testa fino a non capire qual è la realtà delle cose, ma per fortuna tu hai un papà che studia e tiene il cervello in funzione, altrimenti a quest’ora mi sarei ammalato di ulcera. Adesso ho cominciato a studiare inglese.

Dimenticavo di dirti che lo zio mi riferisce il motivo delle tue assenze, cose da poco comunque: forse una tua amica non può fare a meno della tua compagnia. Beh, sicuramente alla tua età è giusto così, ti comprendo.

Non pensate che non sappia quanto dolore vi arreca la mia assenza e vivere senza un appoggio, quell’appoggio che tutti i ragazzi dovrebbero avere.

Eh sì! Ormai vi chiamo ragazzi, visto che siete cresciuti, e quando per telefono vi dico “ehi ragazzi come va?” sento nella vostra voce un certo orgoglio. Per me, oggi, chiamarvi ragazzi corrisponde ad aver perduto una parte di me stesso, non ho potuto cogliere i bambini che siete stati e arriverà il giorno che attraverso quel maledetto telefono (la mia gioia e punizione) non vi chiamerò neanche così, perché sarete maggiorenni e allora il mondo sarà già vostro.