| Il pallone di Angelo |
Enzo Martino | 06-11-2004 |
Tutti coloro che perdiamo qualcosa ci tolgono Emily Dickinson |
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Otto anni fa mi trovai a parlare con dei detenuti miei compagni, davanti alla loro cella, io fuori e loro chiusi. Allora come adesso lavoravo, perciò ero “libero di girare per la sezione”. Era pomeriggio e l’agente aveva appena distribuito la posta. Quel pomeriggio, trovandomi davanti a quella cella, non potei non ascoltare la conversazione che in quel momento i miei compagni avevano iniziato.
L’atmosfera era carica di rabbia per la sensazione d’impotenza che tutti provavano mentre osservavano il destinatario della lettera in silenzio e con gli occhi umidi. La lettera era stata spedita a un compagno dal figlio; il padre, con lo scorrere delle parole scritte dal figlio, piangeva. Ricordo ancora quella frase della lettera e il groppo alla gola che mi era venuto. Il figlio del mio compagno diceva “papà come sai mi piace giocare con il pallone e divertirmi con i miei compagni, ma oggi purtroppo la mamma mi ha comperato la sedia a rotelle perché non riesco più a camminare”. Aveva la distrofia muscolare, mi disse il papà.
Il bambino aveva allora sei anni, la stessa l’età di mio figlio. Ogni qualvolta che incontravo il papà di quel bambino, avevo paura di chiedere come stava il figlio; cercavo di allontanare da me quel senso di malessere. Quel bambino aveva l’età di mio figlio maggiore e non camminava più ed io avevo paura di quel dolore, come ne ho ancora adesso.
Si discute sempre se credere al destino o alla coincidenza degli eventi o anche al “caso” delle situazioni che si vengono a creare; sta di fatto che giorni fa stavo tornando da un ufficio e mentre aspettavo che mi aprissero il cancello per farmi passare, chi vedo dall’altra parte del cancello? Il papà di quel bambino che voglio chiamare Angelo perché, oggi più di ieri, è appunto un angelo.
Erano tanti mesi che non c’incontravamo più col papà di Angelo. Di solito quando ci vedevamo scherzavamo ed io già ero pronto con una battuta, ma quella volta ho visto subito i suoi occhi rossi e pieni di lacrime. Gli ho chiesto cosa fosse successo; Angelo era morto. Ho sentito un tuffo al cuore e la mia mente è ritornata ad otto anni indietro; mi sono sentito subito in colpa per non aver mai domandato di suo figlio per così tanto tempo, e in quell’istante ho sentito lo stesso groppo alla gola di otto anni prima, davanti a quella cella.
Ho visto l’immagine di quel bambino, che con tutte le forze ha cercato di rimanere attaccato alla vita, senza farcela. Le parole non mi uscivano dalla bocca e non riuscivo a coordinare le idee, tutto mi appariva confuso. L’ho abbracciato per fargli sentire la solidarietà e il mio affetto.
Immagino quante volte Angelo ha sentito la mancanza del padre, quanti pianti ha fatto per lui, e in quelle condizioni il peso della solitudine deve essere enorme, specialmente per un bambino. Credo che i sensi di colpa del padre in questo momento peseranno come macigni. Penso ai miei figli e qualcosa mi dice che oggi potranno continuare la loro vita da dove quella di Angelo è venuta a mancare.
All’inizio ero indeciso se scrivere questa lettera, ho aspettato e riflettuto sull’atteggiamento da mantenere e non voglio assolutamente usare il dolore altrui, ho sentito il dovere morale di scrivere di un bambino che ha vissuto senza papà. Sento che questo glielo dovevo, anche se non l’ho conosciuto personalmente.
Adesso, il pallone che vidi in una sua foto e che allora teneva stretto a sé, sento che quel pallone è come se lo avesse voluto mandare a me per farmi giocare in futuro insieme ai miei bambini, e Angelo giocherà con noi.