E allora ti scrivo ... |
Rossella Dolce | 12-10-2004 |
Quanti anni sono passati senza una parola tra noi? Non ricordo più la tua ultima parola, ero piccolo e non sapevo che era un momento importante, da ricordare. Non ho nemmeno guardato le tue spalle quando hai preso la porta per non tornare. Ma non credo sia importante, un bambino non può capire la parola addio. No, in effetti, qualunque spiegazione non avrebbe cambiato le cose: è solo che da quel momento tu non sei più esistito per me.
Questa mattina ero davanti al cancello, ero lì perché sapevo che saresti uscito alle 8 per andare al lavoro e ho pensato che un giorno con il sole, i fiori e nessun anniversario, insomma un giorno qualunque, potesse rendere i miei ricordi finalmente leggeri come tante immagini spesso sognate e mai vissute.
Sono arrivato lì senza battute pronte. Stavo bene, rilassato e tranquillo, mi sono seduto sulla panchina e ho respirato a fondo dicendomi: tutto bene, ora aspetto. Una frazione di secondo e sulle mie spalle si è materializzato un peso enorme e mi sono accorto che io ho sempre fatto solo questo, ti ho solo e sempre aspettato.
Ho iniziato a otto anni, quando una ingiusta e predestinata mattina un mio compagno di classe mi ha chiesto semplicemente: “Perché non vuoi partecipare alla corsa con i sacchi per la festa del papà? Guarda che è divertente e poi mia mamma ride sempre un sacco e poi prende in giro il mio papà per tutta la sera, prova!”.
Poche parole di un bimbo allegro e io sono cresciuto e morto insieme. A pranzo non sono andato a mangiare a mensa, ho detto che avevo mal di pancia e sono tornato a casa. La mamma mi ha accompagnato a casa ed è tornata al lavoro e io ho iniziato a piangere. Poi però ho iniziato ad essere arrabbiato, non riuscivo a stare in casa, ho preso il pallone e sono corso in spiaggia.
Ho corso forte per strada e sulla sabbia fino a perdere il fiato e cadere a terra. C’era vento e la palla si spostava; me ne stavo seduto sulla riva, volevo riposarmi, ma la palla non stava mai dove io la mettevo di fianco a me. L’ho ripresa e riavvicinata per una decina di volte senza successo, allora mi sono arrabbiato ancora di più: era una stupida palla ormai vecchia e piena di fango e non riuscivo a farla restare. “E ALLORA VATTENE!!!” E ho calciato fortissimo verso l’orizzonte per poi rimettermi seduto, finalmente solo e tranquillo. Sono stato lì fino a dopo il tramonto, fino a quando la rabbia è sparita sotto il rumore delle onde e schiaffeggiata lontano dal vento.
A quel punto mi sono rialzato e ho visto la palla di fronte a me; le onde la avvicinavano e sembrava che stesse lì ad aspettare che io la perdonassi e la riprendessi con me. Si era un po’ pulita nel mare e ho pensato che asciutta mi sarebbe piaciuta più di prima, così ho sorriso e l’ho presa. Non me ne sono accorto allora, ma è stato lì e con quel gesto che ho iniziato ad aspettare te.
Su quella panchina ho ripensato a tutti questi anni passati: sto prendendo il diploma papà, e non è stato difficile, nemmeno trovarmi unico uomo della famiglia a stappare lo spumante a Natale e Capodanno ogni anno è stato impossibile. Ho studiato, mi sono innamorato, ho perso un amico e non ho chiesto consigli a nessuno, del resto non ne ho mai cercati.
Però questa mattina mi era intollerabile stare ancora su quella panchina e mi sono alzato per tornare a casa. Ci ho riflettuto e forse non è ancora il momento di vedere la tua faccia, ma non è nemmeno più tempo di aspettare come un bambino disarmato sulla spiaggia.
Dunque ti scrivo:
Sono cresciuto comunque, in fretta, tutto in una volta.
Andrebbe anche bene, se non fosse che non so ancora da dove vengo.