La scuola che vorrei |
Paola Mellace | 14-02-2010 |
La mia pur breve esperienza d’insegnamento in carcere e soprattutto l’incontro con il Gruppo della Trasgressione hanno determinato una forte cesura tra due momenti della mia vita professionale nel mondo della scuola. Sin dai primi contatti con i detenuti mi è parsa palese, infatti, l’analogia tra gli obiettivi della scuola e del carcere: la prima educa il secondo ri-educa. Parole che si differenziano solo per un prefisso in cui è contenuto purtroppo il fallimento di un’istituzione, la scuola appunto, che dovrebbe promuovere lo sviluppo della personalità dell’individuo, la sua socializzazione, dovrebbe farne un cittadino libero e rispettoso dell’altrui libertà, ecc. ecc. Sono questi gli obiettivi educativi cosiddetti “trasversali” che tutti gli istituti scolastici si prefiggono e dovrebbero perseguire, soprattutto in aree di particolare disagio sociale.
Durante l’incontro tenutosi all’I.S.I.S. di Bisuchio tra gli studenti di due classi quinte e il Gruppo della Trasgressione, il Dott. Aparo ha spiegato ai presenti la differenza tra una gratificazione di tipo “evolutivo” o “emancipativo” ed una gratificazione di tipo “regressivo”: la prima aiuta l’adolescente nel suo processo di crescita e non sempre è a portata di mano. Spesso bisogna sudarsela, attraverso lo sforzo e l’impegno nel portare a compimento un progetto. La seconda invece s’insinua in ogni occasione, alletta il giovane conducendolo lentamente in un delirio di onnipotenza che sovente purtroppo è la chiave delle porte del carcere.
Il discorso del dott. Aparo ha risvegliato in me sogni e ideali che in passato rincorrevo, credendoli realizzabili: ritenevo che la scuola potesse accogliere gli studenti, stimolare la loro curiosità e il loro desiderio di riconoscersi in un gruppo di coetanei con cui condividere interessi e gioie, ma anche ansie e timori.
Ero e sono tuttora affascinata dalla teoria delle “intelligenze multiple” e mi sono sempre sforzata di stimolare vari stili di apprendimento che si appellano ad altrettante forme d’intelligenza, integrando le mie lezioni con attività diversificate come la musica, il disegno, il movimento, ma soprattutto la riflessione e il dibattito. Perché proprio attraverso la riflessione e lo scambio di opinioni vengono stimolate quelle formae mentis che Gardner definisce intelligenze intra e interpersonali, essenziali per imparare a riconoscere e controllare le proprie emozioni allo scopo di interagire con gli altri in modo efficace.
Perciò sono sempre stata affascinata da come i componenti del Gruppo della Trasgressione, sapientemente guidati dal dott. Aparo, riescono a condurre gli studenti attraverso ragionamenti su temi impegnativi, spesso difficili, quasi “prendendoli per mano”. All’inizio gli studenti appaiono sempre un po’ riluttanti, quasi infastiditi, si osservano, sono obbligati ad ascoltarsi perché il dott. Aparo li incalza, finge di essere sordo e chiede a qualcuno di ripetere l’intervento che il compagno seduto accanto ha faticosamente espresso.
Bisogna ascoltare, quindi. Ascoltare le opinioni degli altri, analizzarle, reagire, confutandole oppure sostenendole. Ascolto e riflessione: due attività che risvegliano le intelligenze intra e interpersonali, purtroppo impigrite perché raramente vengono chiamate in gioco. E così mi è sorta spontanea una domanda, che durante l’incontro ho posto agli studenti: ritenete che la scuola, così come voi l’avete conosciuta e vissuta, abbia in qualche modo creato le condizioni per favorire e promuovere una gratificazione “evolutiva”, sia dal punto di vista cognitivo che sociale?
Lo scorso anno, durante un analogo incontro, non sono riuscita a trattenermi dal chiedere ai detenuti presenti: avete memoria di una scuola che in qualche modo vi abbia distolto dalle vostre scelte devianti, proponendovi percorsi e strumenti per interpretare una realtà che evidentemente vi sfuggiva e che credevate di afferrare inseguendo forme di potere prevaricanti?
In entrambi i casi non ho ricevuto risposte chiare, forse le mie domande sono parse troppo dirette e inattese, soprattutto se poste da chi nella scuola ci opera. In realtà le mie erano domande retoriche, ma lo stupore degli studenti e dei detenuti dimostra che la maggioranza degli utenti e delle famiglie fa riferimento ad un’idea di scuola che si esaurisce in un concetto molto vago di luogo a cui è demandata la trasmissione di conoscenze.
La scuola che vorrei è invece un’altra. E’ una scuola che accudisce i suoi studenti, aiutandoli a manifestare tutte le loro potenzialità; che si interroga sui cambiamenti in atto nella società, affrontandoli con competenza e serenità perchè dispone di mezzi e risorse umane. E’ una scuola che non obbedisce alle leggi del mercato, non fa i conti con le spese di riscaldamento, del personale, della manutenzione dei suoi edifici e si propone come luogo di aggregazione sociale, sempre aperto e pronto ad accogliere i giovani, soprattutto quelli che avrebbero come alternativa la strada. Amplia la sua offerta formativa, ma propone anche momenti di svago e d’intrattenimento, oppure percorsi di riflessione come quello che l’Istituto Superiore di Bisuschio ha realizzato in collaborazione con il Gruppo della Trasgressione.
La scuola che vorrei sostiene e incoraggia lo studente nella realizzazione del suo progetto di vita, è una scuola aperta che accoglie i suggerimenti di associazioni di liberi cittadini e non esaurisce l’attività didattica all’interno delle sue mura. Perché s’impara a conoscere ed apprezzare la libertà anche in un carcere, incontrando chi quella libertà l’ha perduta e intrecciando i propri sogni e timori con il dolore di chi spera di poter ricominciare. Solo così diventerà una scuola efficace e potrà educare senza dovere ricorrere alla ri-educazione.