Siamo uomini o materiali? |
Franco Prattico
Un confronto fra un biologo e un filosofo
In un libro Luc Ferry e Jean Didier Vincent esprimono punti di vista opposti sulla "nascita" dell'uomo. Siamo "vecchie scimmie allo stato infantile o invece il fine stesso dell'Universo"?
Insomma, cosa significa "essere uomo"? Siamo impastati nel fango della materia, frutti di un casuale processo materiale o siamo stati partoriti nella luce degli angeli, portatori di un destino tanto più grande di ognuno di noi e intrecciato con le stesse sorti dell'Universo che abitiamo? Sono millenni che filosofi, religiosi, mistici, scienziati se lo chiedono, e ognuno fornisce le risposte più vicine alle proprie convinzioni e ai propri saperi. Un argomento antico e sempre controverso, ma che oggi riceve nuovi input dai progressi della scienza e nuovo fondamento fattuale dalla teoria dell'evoluzione, che ci assegna - adesso anche grazie alla biologia molecolare e alla genetica - una parentela molto stretta con gli altri primati, in primo luogo con gli scimpanzé.
Su questo tema si confrontano, in un libro recentemente pubblicato anche in Italia, un filosofo e un biologo francesi (Luc Ferry e Jean-Didier Vincent: Che cos'è l'uomo? Sui fondamenti della biologia e della filosofia con presentazione di Salvatore Veca, Garzanti, pagg. 284, 19 euro). Cioè, siamo degli scimmioni evoluti o parenti stretti degli angeli? Per il filosofo Ferry non ci sono dubbi: senza tirare in ballo gli angeli, rivendica per l'uomo uno statuto speciale, unico nel mondo vivente. E taccia di biologismo deteriore, di metafisico riduzionismo, qualsiasi riconduzione di Homo Sapiens a prodotto casuale di una diramazione africana d'una antica famiglia di primati: gli argomenti su cui si poggia questa ricostruzione (oggi dominante), frutto della interpretazione di alcuni reperti fossili, sono il prodotto, per Ferry, di una metafisica cioè in ultima analisi indimostrabile - superstizione scientista: è impossibile, sostiene, definire l'uomo solo sulla base della sua biologia. C'è sempre un residuo non conoscibile, un dato ulteriore non raggiungibile col solo approccio materialista, non riconducibile alla sola essenza biologica dell'uomo, qualcosa che sfugge a ogni determinismo meccanico: ed è la libertà, la capacità tutta umana di scegliere tra alternative diverse, di non farsi imprigionare in codici comportamentali precostituiti a livello di specie. E' la libertà la vera discontinuità dell'uomo rispetto ai regni di natura, uno scarto rispetto ai codici materiali.
Rifacendosi a Rousseau (e anche a Kant) Ferry osserva che libertà e responsabilità sono il contrassegno del fossato tra noi e il resto del mondo animale, assieme alla pulsione a condividere con gli altri umani le nostre emozioni, sentimenti ed esperienze. A differenza di ciò che avviene nel mondo animale, l'uomo può così perfezionarsi e trasformarsi nel corso della sua vita, mentre l'animale fin dalla nascita è intrappolato nei codici (genetici e comportamentali) della sua specie. Quindi l'uomo ha, anche a livello individuale, una "storia", e perciò è un essere morale (in grado di decidere i propri comportamenti), senza essere necessariamente prigioniero di alcun codice naturale e neppure storico (ambientale, culturale, etc.): è un essere che sceglie, anche se la sua provenienza dal mondo animale non può essere posta in dubbio.
Naturalmente, anche per il biologo Vincent, celebre in Francia per le sue esplorazioni delle linee di confine tra biologia e psicologia, è sicuro che se l'uomo è un animale, è senza dubbio anche un essere molto particolare. Ma «la sola domanda che ci può condurre all'essenza dell'uomo è quella sulle sue origini. E su queste non ci sono dubbi» afferma Vincent, ricapitolando sommariamente i risultati attuali della paleoantropologia. E rispondendo all'accusa di metafisica che Ferry rivolge contro ogni forma di riduzionismo, che innescherebbe una catena senza fine di rapporti di causa ed effetto, osserva che senza ricorrere all'idea di una Causa Prima, di un Motore Immobile, basta ricordare che tutto ciò che vive sulla Terra discende fuor di dubbio dal primo organismo in grado di riprodursi, la prima cellula formatasi sul pianeta tre miliardi e mezzo di anni or sono e di cui tutti noi siamo discendenti: che denomina LUCA (acronimo che sta per Last Universal Common Ancestor). Lì comincia la storia di cui siamo, al momento, gli ultimi epigoni. Nel corso lentissimo dell'evoluzione la nostra specie ha rimpiazzato tutti gli altri modelli che l'hanno preceduta sullo stesso ramo: i diversi australopitechi, " tentativi" dell'evoluzione di produrre risposte più efficaci alle sfide dell'ambiente.
A differenza di quei cugini spariti dalla faccia della Terra i nostri antenati hanno avuto la ventura non solo di potersi provvedere di quel prodigioso strumento che è il linguaggio (formidabile strumento anche di coesione e di socialità), ma anche di godere di una particolare "apprensione del tempo" - Ossia della capacità di misurare la durata, il prima e il poi, di avere così anche l'intuizione della morte - resa possibile dallo sviluppo nel suo cervello della corteccia frontale e quindi delle aree a ciò deputate. E in più di essere un animale "neotenico": ossia di conservare nella maturità caratteri infantili, di nascere incompleto e quindi di continuare ad apprendere, dopo la nascita, subendo quindi gli impatti formativi dell'ambiente, delle esperienze, sfuggendo così alle rigide determinazioni genetiche, e ai codici comportamentali cui sono prigionieri gli altri animali. Saremmo quindi, secondo Ferry, vecchie scimmie rimaste allo stato infantile. E questo è il fondamento, se si vuole biologico, della libertà rivendicata da Ferry. L'uomo è "libero" nella misura in cui rispetto al canone animale è "incompleto": proprio la scarsezza di specializzazioni gli hanno consentito di sfuggire alle trappole in cui, nell'evoluzione sono incappati gli altri animali, ben più perfetti di lui, e anche i suoi cugini australopitechi. Potrebbe essere proprio questa incompletezza - che avrebbe la sua radice appunto nella neotenia: un cervello immaturo alla nascita è meno condizionato dal comando genetico - a sottrarlo, non completandolo, a determinazioni troppo severe e stringenti.
E allora, se Vincent ha ragione, la scienza farebbe giustizia di ogni ipotesi che restituisce all'uomo uno statuto speciale? Siamo solo le "vecchie scimmie" di cui parla Ferry? Ma se il darwinismo evoluzionista restituisce all'uomo il suo rango di primate, sia pure di lusso, c'è proprio nel cuore più avanzato dell'Impresa scientifica chi - pur senza spirito religioso - ne fa addirittura il fine stesso dell'Universo. Utilizzando in tal senso alcune delle "stranezze" della meccanica quantistica, o meglio di alcune letture della nuova fisica che pongono al centro del fenomeni (almeno, di quelli microscopici: ma al suo inizio l'Universo stesso era microscopico) il ruolo dell'osservatore. Così gli "osservatori" - cioè le forme di vita intelligente in grado di osservare ed esplorare l'Universo, come appunto gli esseri umani - sono necessari perché l'Universo stesso esista: è il cosiddetto Principio Antropico Forte, forse adattabile anche all'evoluzione biologica, secondo il quale l'Universo come lo conosciamo è determinato nelle sue leggi da una serie di costanti fisiche che hanno dei valori così finemente calibrati da rendere possibile l'esistenza di stelle e pianeti e in ultima analisi l'apparizione della vita e la conseguente comparsa dell'uomo. E quindi la nostra nascita (o meglio, la nascita di fisici e cosmologi fantasiosi) sarebbe in ultima analisi il fine dell'Universo e della sua evoluzione. Una teoria un po' megalomane di cui si fanno interpreti due scienziati anglosassoni di tutto rispetto in un libro pubblicato in Italia da Adelphi (John D. Barrow e Frank Tippler: Il principio antropico, 770 pagine, 55,00 euro).
Ma non c'è solo il Principio Antropico Forte a restituire all'uomo una dignità che Darwin gli aveva sottratto. Più modestamente, il Principio Antropico Debole - anch'esso illustrato con dovizia di equazioni nel libro di Barrow e Tippler - osserva, un po' tautologicamente, che se i valori di quelle costanti universali della fisica fossero diversi, semplicemente non ci saremmo. Ma come mai quei numeri sono così come sono? Una spiegazione possibile è che esisterebbe una molteplicità di Universi i cui valori fisici variano solo lievemente l'uno dall'altro, e noi ci siamo perché questo in cui viviamo è quello giusto per farci esistere. E domani chissà - ipotizzano i due autori - partire alla conquista del Cosmo, modificando per mano nostra la sua storia, modellandolo sulle nostre esigenze.