Alla domanda "Cosa s'intende per sfida?" possiamo dare le risposte più disparate, ma in genere le immagini che maggiormente ricorrono sono quasi sempre le stesse: uno sportivo teso (da solo o in gruppo) al superamento di un record o alla vittoria in una competizione, uno scienziato dedito alla scoperta di un vaccino in grado di salvare milioni di vite, un militare che difende con coraggio il proprio Paese, un politico in cerca del consenso elettorale Gli esempi potrebbero continuare sulla stessa linea.
A pochi, a pochissimi credo, viene in mente la "sfida del quotidiano", quella che potrebbe capitare (e a volte capita) ad ognuno di noi, quando meno se lo aspetta, quando meno è pronto ad affrontarla. Quelle situazioni, insomma, che non ci siamo certo andati a cercare, nelle quali veniamo tirati per i capelli e dalle quali poi non possiamo più uscire, se non combattendo una dura battaglia, sempre insicuri dell'esito finale. Sono queste, a mio avviso, le sfide più vere, quelle che richiedono un eroismo concreto, perché protratto nel tempo e non frutto di un singolo slancio.
Parlare in astratto ha poco senso. E' preferibile ricorrere a un esempio concreto, a una storia vera, della quale ho avuto l'onore e l'onere di essere testimone e, per certi aspetti, coprotagonista.
Circa sei anni fa una studentessa universitaria esce dalla propria abitazione in bicicletta per andare a prendere il pane. Mentre attraversa un incrocio, una automobile "brucia" lo stop e la investe in pieno. La ragazza nella violenza dell'urto subisce una grave lesione cerebrale che tuttora le impedisce il corretto controllo della parte destra del proprio corpo.
La ragazza, che chiameremo Anna, ha un padre, una madre e un fratello, che chiameremo Rino, Giulia e Roberto: tutti nomi di fantasia, inventati per tutelare la loro privacy. Nomi di fantasia per una storia, lo ripeto, reale.
Da sei lunghi anni questa famiglia combatte (ed è proprio il caso di dire senza tregua) la propria sfida, che consiste nell'aiutare in ogni modo Anna a recuperare, del tutto o in parte, l'uso del suo corpo. Teoricamente questo è possibile, ma i risultati che si ottengono si possono definire infinitesimali, soprattutto se comparati agli enormi sforzi profusi per ottenerli.
Il signor Rino ha abbandonato la sua precedente occupazione per mettere su una piccola impresa familiare con la moglie. I due coniugi possono così occuparsi alternativamente dell'azienda e della figlia, suddividendosi mattine e pomeriggi. Ovviamente, trattandosi di un'attività che li occupa 24 ore su 24 per 365 giorni all'anno, devono ricorrere anche ad un team di persone esterne, delle quali faccio parte.
Come dicevamo, i risultati ci sono, ma sono scarsi e basta poco per metterli in discussione. Basta per esempio che Anna sia vittima di una malattia anche banale, come un semplice raffreddore, per rallentare o bloccare il lavoro di settimane o di mesi. In sostanza spesso si fanno tre passi avanti e due indietro ed è in quei giorni che si avverte tutta la stanchezza di una guerra che dura da tanto tempo.
In questa guerra il signor Rino è sostanzialmente solo. Le istituzioni non hanno saputo far altro che consigliare il ricovero della figlia in un centro specializzato, nel classico (se così possiamo chiamarlo) istituto per persone handicappate.
Ma definire Anna "handicappata", prima che umanamente umiliante, è tecnicamente riduttivo. Lei, che è ormai divenuta a tutti gli effetti una giovane donna, si ricorda buona parte del proprio passato, ha pensieri, sentimenti e desideri come li abbiamo tutti noi. E' sempre attenta a tutto quanto le accade intorno. Comunica come può con i suoi genitori, i suoi amici, quelli conosciuti prima dell'incidente e quelli nuovi. Per farsi capire spesso è costretta a ripetere quattro o cinque volte la stessa frase, con tenacia, finché il suo interlocutore la comprende e sorride.
Certo, non può sempre decidere quello che vuole o vorrebbe fare. La rieducazione le impone un programma severo di esercizi, che sfinirebbero qualsiasi persona; ma lei vi si sottopone con una pazienza incredibile, perché vuole guarire. Sì, Anna vuole guarire. Ed è lei la prima, anche se non unica, protagonista di questa sfida.
Ha pure rinunciato a vergognarsi del suo corpo e si deve lasciare lavare da perfetti sconosciuti, come lo ero io quando ho cominciato a occuparmi di lei.
Noi tutti abbiamo braccia e mani che ci consentono di fare quello che vogliamo, gambe che ci portano dove vogliamo andare
Abbiamo sete? Beviamo. Abbiamo fame? Mangiamo. Abbiamo sonno? Dormiamo. Non dobbiamo chiedere a nessuno, con fatica, di darci da bere, da mangiare o di metterci a letto. Ecco perché la sfida di Anna e delle persone come lei non può essere minimamente paragonata, per la sua intensità, a quella della più valorosa tre le cosiddette persone "normali".
A volte mi chiedo dove questa famiglia attinga tutta la mole di coraggio e di forza che occorre per affrontare una tale situazione. La fede sicuramente li aiuta. Credono in Dio e pregano ogni giorno per un miracolo che magari potrebbe non arrivare mai. Ma intanto non restano con le mani in mano e lavorano duro, affinché il miracolo si realizzi.
Tutti noi, mi chiedo, ci comporteremmo allo stesso modo? Forse qualcun altro, dopo qualche esitazione, avrebbe percorso la via del centro per handicappati, che avrebbe consentito alla famiglia di continuare a vivere una vita comune: qualche visita nei fine settimana e qualche regalino sarebbe poi bastato a mettere a tacere la voce della coscienza. Anna, Rino, Giulia e Roberto hanno scelto la strada più dura.
Ma, ed è questo il punto cruciale, questa era l'unica scelta che potevano fare o non fare. Non potevano invece impedire che la sfida venisse lanciata e tanto meno potevano, una volta accaduto l'incidente, sottrarsi al proprio destino.
Tornando agli esempi fatti all'inizio, possiamo vedere come sportivi, scienziati o politici scelgano scientemente le proprie sfide. Persino chi viene "provocato" può decidere se fuggire o combattere. Tutti spesso ci troviamo a dover scegliere in che direzione andare, ma le strade che abbiamo di fronte sono almeno due e, per essere onesti, nella maggior parte dei casi molte di più.
Per Anna e la sua famiglia invece la questione non era e non è se accettare o meno la sfida. A loro non è rimasto altro che decidere come combatterla. Lo hanno fatto e lo stanno facendo nel migliore dei modi: con il coraggio della quotidianità.