Home | Intervista sulla sfida |
Senza pensarci troppo, quali immagini le evoca il termine sfida?
Immediatamente, mi vengono in mente termini quali: laboratorio, viaggio, avventura, gioco, fondare, pioniere, scoperta, inventiva, feedback, verifica. In prima battuta, mi viene spontaneo guardare alla sfida dalla parte del ricercatore, del terapeuta, che quindi concepisce sempre il suo lavoro in una logica di sfida come avventura.
Se ci rifletto un po', penso anche ad altri aspetti della sfida che sono legati, ad esempio, alla malattia come sfida. In effetti, nella clinica, quando incontriamo il sintomo, incontriamo una sfida.
In che senso dice che ogni sintomo è una sfida?
Perché quasi sempre il sintomo lo usiamo per qualcuno e per creare quindi una transazione con l'altro.
Quindi una forma di comunicazione?
Si, ad esempio nei bambini, per l'esperienza che ho con i bambini in terapia, il sintomo è una grande sfida. Una sfida con la famiglia, la scuola, l'istituzione, i medici. Ci sono bambini che a quattro anni sono in grado di tenere in pugno tutto un sistema sanitario. E' molto bello, perché, per esempio, per un approccio terapeutico, è interessante trovare un'altra via di relazione al bambino che non sia quella della sfida.
E devo dire che anche per l'adulto, in effetti, la cosa che trovo più problematica della logica terapeutica corrente è che mette il soggetto in una sfida contro se stesso, nel senso di pensare la malattia come un nemico, e quindi innesca dei meccanismi di lotta, di duello interiore che non possono essere in sé molto terapeutici.
A volte hanno l'effetto di sopprimere il sintomo, funzionano da quel punto di vista, ma io credo che un atto terapeutico sia quello di provare ad individuare una logica diversa da quella della sfida contro una parte di sé, o contro un altro come parte di sé, una logica che possa essere, invece, più simile a quella della sfida come avventura.
Per esempio un percorso psicoterapeutico non come una logica terapeutica, ma come una logica di sapere, cioè un viaggio alla scoperta di correlazioni, di storie, di elementi lontani fra loro che possono avere dei nessi. In questo modo, il corpo malato o il comportamento malato, o il corpus sociale malato di cui il paziente soffre e si lamenta, possono essere trasformati in un laboratorio dove la sfida diventa l'avventura di sapere.
Quali personaggi della storia, della mitologia o dello sport le vengono in mente pensando alla sfida?
Sigmund Freud, Giordano Bruno, Prometeo, Arnold Schönberg, il padre della dodecafonia, ma anche un mistico indiano di nome Padmasambhava, molto interessante, che ha fatto cose interessanti dal punto di vista della sfida, anche se questo è oscuro ai più, e poi Galileo, Cristo
Ho questa idea della sfida
che si lascia leggere facilmente in relazione ai personaggi che ho citato, anche se mettere insieme Cristo con Schönberg
non so...ma ognuno ha i suoi sistemi di credenze
Con quali termini potrebbe definire una persona che lancia una sfida?
Termini legati all'entusiasmo, al coraggio, all'onestà, all'avventura. Però esiste anche tutta la dimensione dell'odio. Qui c'è l'aspetto della sfida non più come avventura del sapere, ma la sfida come annientamento del nemico, e di conseguenza c'è un legame anche con la paura la sfida può in realtà nascere anche da una grande paura, nel tentativo di superarsi.
Quali possono essere le cause, le finalità che spingono gli individui a rischiare lanciando delle sfide? Cosa sta alla base di una sfida?
La prima accezione è quella del movimento, dell'idea di muoversi. Ecco un grande personaggio della mitologia, che non ho citato prima: Ulisse. Mi piace molto l'idea del viaggio, della conoscenza. Quindi il movimento è essenziale affinché ci sia sfida. Il movimento serve ad allargare gli orizzonti, a guardare più in là, a guardare di più, a dare spazio.
Per lei la sfida ha quasi sempre connotazioni positive?
Non è che non veda la possibilità di connotazioni negative, ma mi vengono come secondo livello, meno interessanti.
Potrebbe individuare alcune categorie di sfida? Quanti tipi di sfida esistono secondo lei?
Abbiamo la sfida come avventura del sapere, oppure la sfida come rivendicazione, sopraffazione. Fondamentalmente vedo queste due categorie. Possiamo metterne una intermedia che è quella del gioco, la gara
la gara può essere anche il modo per imparare qualcosa, io posso anche sfidare il mio avversario ed uscirne vincitore o vinto, ma riconoscente di quello che ho appreso dall'esperienza.
La sfida giocata sulla sopraffazione, invece, non mi insegna niente, non toglie di mezzo il mio problema, anzi, l'ostacolo alimenta la sfida.
Che rapporto c'è tra sfida e narcisismo, sfida ed istanze evolutive, sfida e conflitto?
La sfida evolutiva ha nel narcisismo un motore importante. Se non c'è narcisismo non c'è un consolidamento del livello narcisistico dell'Io, il rapporto con il proprio Io è già di sfida, perché contraddistinto dal conflitto. Perché ci sia sfida nel senso del viaggio, nel senso dell'avventura di sapere occorre che ci sia un livello di confidenza in sé importante, quindi un'egosintonia di fondo.
E' vero che anche la nevrosi può essere il viaggio, può essere sfida, può essere una ricerca del proprio Io, ma questo è sempre implicito.
Il narcisismo è l'alfa e l'omega, perché in realtà è la fase di partenza, ma noi non ci prendiamo mai in toto, fortunatamente, sennò non faremmo il viaggio quindi Ulisse, in questo, è fantastico come modello, perché è l'esempio del viaggio iniziatico, della dimensione della conoscenza, dell'avventura che va incontro a qualunque tipo di rischio pur di imparare, di comprendere.
Questo richiede una componente narcisistica importante. Non si può escludere il plauso dalla sfida, non si può escludere il successo, perché altrimenti le ricadute sarebbero letali nel prosieguo del viaggio.
C'è anche la problematica del narcisismo in senso opposto. Se c'è una dimensione troppo fragile dell'Io, questo verrebbe annientato ad ogni minima difficoltà, mentre una struttura egoica più solida consente anche di usare l'ostacolo come un rilancio. La risposta è la medesima per quanto riguarda il punto di vista dell'istanza evolutiva e del conflitto. Il conflitto con l'altro, fondamentalmente, è un conflitto con sé. Sé ed altro sono coincidenti.
Quindi sfidiamo gli altri per sfidare noi stessi e viceversa?
Se vogliamo leggere la sfida come un parametro clinico, è chiaro che l'atteggiamento della sfida nei confronti dell'altro è un atteggiamento tendenzialmente paranoide. Quindi nell'altro io posso proiettare tutte le mie mancanze. Ma questa è una sfida sterile perché si gioca sul "mors tua vita mea" e viceversa. Mentre la sfida nell'accezione del viaggio, dell'avventura, del sapere si trasforma in "vita tua vita mea", quindi andiamo in una dimensione al di là del puro narcisismo, perché nella dimensione involutiva del narcisismo l'altro non ha spazio. Invece il viaggio è dare spazio all'altro.
Che cosa rimane alla persona di una sfida?
Dipende da come vive la sfida; se la sfida deve essere l'annientamento della propria immagine speculare nell'altro, quindi l'immagine allo specchio che uno proietta sull'altro, rimane ben poco, perché il conflitto si apre sempre di più; l'Io, in questo caso, viene lacerato nella sfida. Se invece la sfida è propulsiva, uno può anche uscirne sconfitto, ma ne ricava cognitivamente dei dati estremamente importanti. Non è importante vincere una sfida, quanto il parteciparvi.
C'è un'età in cui la sfida è più frequente?
L'adolescenza.
Quali differenze e quali analogie possiamo cogliere tra la sfida di un adolescente e quella di un adulto?
L'adolescente spesso ha l'entusiasmo che manca all'adulto. Quello che io noto è che oggi si tende a concepire l'adultità spesso come una rinuncia. Quindi l'adultità diventa un prepensionamento, una senilità precoce, una senescenza precoce. Mentre bisognerebbe mantenere forse anche nell'adultità la dimensione adolescenziale della vita da vivere, perché la vita dev'essere ancora vissuta.
Se dovesse immaginare delle battute tra un ragazzo ed un adulto, con il primo che racconta al secondo di una sfida che intende fare, cosa direbbe il ragazzo, e cosa direbbe l'adulto?
Quando questo avviene in terapia, succede quello che non succede normalmente fuori tra un ragazzo ed un adulto. Il ragazzo quando di solito lancia le sue proposte di sfida all'adulto viene schiacciato. Questo non succede in terapia, dove curiosamente, per la prima volta, si sente ascoltato nelle sue sfide.
La sfida della donna è diversa da quella dell'uomo?
Teoricamente no, la sfida è essenzialmente una relazione dialettica e non necessariamente conflitto; la dialettica non ha sesso. Se la donna sfida il genere umano a riconoscerla come uomo, sfida istericamente, e questo è un aspetto patologico del problema, ma credo che la sfida non abbia un'identità sessuale.
Secondo lei la nostra società lancia dei messaggi di sfida?
Certo non nel senso di sfida come avventura. La società non è certo composta da "soci", dai cittadini. La società è gestita a due livelli: da una parte c'è il potere delle multinazionali e dall'altro chi di potere non ne ha. Chi ha potere sfida chi non ne ha sapendo di vincere grazie a un meccanismo perverso: io so qual è il tuo bene (vd. globalizzazione) e ti costringo subliminalmente a chiedermi ciò di cui hai più bisogno. E' la mia offerta che crea la tua domanda. E ti inoculo l'idea che la tua sfida sia quella di poter chiedere sempre di più e ottenere sempre di più. Così la gente crede di avere padronanza sul desiderio senza accorgersi che questo desiderio è manipolato. E' l'antica dialettica di servo e padrone ...
La vera sfida sarebbe quella di riappropriarsi del diritto alla domanda. Dovrebbe essere la domanda a generare l'offerta e non viceversa. Quando è l'offerta a generare la domanda la sfida come ricerca, come evoluzione, come miglioramento è annullata a priori, perché l'Altro sociale ti anticipa, come la madre che ingozza bulimicamente il bambino, senza aspettare che sia lui a cercare a chiederle qualcosa e così facendo gli "tappa la bocca", con tutto ciò che la metafora può farci intendere.
Qual è la sua sfida personale, la sfida della sua vita?
La mia sfida è che si possa valorizzare il modo in cui ciascuno vive la propria vita come sfida. Io credo che si possa vivere questo come malattia, come nevrosi, come perversione, come disperazione, ognuno ha una dimensione un po' tragica nella vita, nel senso classico del termine. Poiché mi identifico molto con l'eroe tragico (non importa se vincitore o vinto, importa la tensione dialettica), vorrei ci fosse per tutti il diritto di vivere in questa tensione dialettica con la vita, cosa che, ahimè, in una logica di normalizzazione, di globalizzazione cioè di normativizzazione perversa (giacché la società perverte la legge), non è così facile.
Credo che le esperienze di psicoterapia possano dare questo spazio per rilanciare le proprie sfide. Io combatto il sapere saputo, ecco perché ho citato degli eroi che hanno avuto il coraggio di rompere gli schemi del "risaputo"; non importa che abbiano avuto torto o ragione, questo è il punto difficile.
Mi oppongo allo strapotere di tizio e caio che pretendono di dire la verità e di sapere qual è il bene dell'altro. Sembra che la grande domanda sul mercato del mondo sia quella di avere un equilibrio. Ma questa è la morte, è la pulsione di morte. Invece il senso della vita è dato proprio dallo squilibrio, dalla tensione. E' fantastico questo rapporto tra equilibrio e squilibrio. E' solo mettendo in squilibrio che posso creare un movimento e recuperare un equilibrio, ma questo dev'essere dialettico. Se non c'è questa dialettica, c'è la morte, la morte del pensiero, la morte della ragione. Questa è la mia sfida.
Quando parlo in pubblico, ciò che dico ha spesso un carattere turbativo, che ho spesso pagato caro nella vita; però non lo faccio con l'idea dello scandalo, non voglio turbare in realtà, voglio solo dare l'idea che si possa creare movimento, l'onda. Non ho un'idea di terapia come "restitutio ad integrum", il concetto di "integrato", insito nel logo del mio Istituto, può evocare un equivoco, perché in realtà non si tratta di tappare i buchi, ma di creare movimento, laddove invece il sintomo ha creato un equilibrio instabile, un ristagno che è molto più precario. Quando io mi muovo ed ho un ritmo, nel ritmo c'è movimento e stasi, questa è "integrazione" ma quando io sto fermo nello squilibrio precario o nell'equilibrio precario mi posso rompere immediatamente, non sono in grado di adattarmi velocemente al cambiamento di situazione.
Invece io credo che lo star bene non sia tanto non avere sintomi, ma una certa mobilità sia nel corpo che nella mente, nelle relazioni, nel comportamento.
Nel corso della nostra vita pensa sia indispensabile affrontare delle sfide?
E' salutare! I bambini usano il gioco come laboratorio perchè, in effetti, c'è una dimensione anche ludica della sfida; non dobbiamo sempre vederla come una cosa aggressiva. Di fronte a molte devianze io mi chiedo "Ma cosa può fare questa persona di alternativo?". Esiste una risorsa per far sì che queste stesse cose se le giochi su un altro piano? perché non può non farlo? E' molto complessa la questione!