Giustizia e devianza | Lunedì 9-Luglio-2001 |
A Milano
un convegno sull'attimo di follia
che conduce una persona a efferati delitti.
Un comportamento incomprensibile?
Solo in parte. Ne parliamo con lo psicologo
Angelo Aparo
ORRORE, efferatezza, sangue. Ferite abissali, annientamento dogni senso umano. Matricidi, infanticidi, uxoricidi, esecuzioni sommarie, stragi. Il o i colpevoli? Dopo aver commesso il fatto, possono, in molti casi, non riconoscersi più. Tornano ad uno stato di apparente normalità. Non ricordano ciò che hanno commesso. E sui giornali, titoli giganti in cui troneggia, misteriosa, esplicativa e allapparenza risolutoria, la famosa parola: raptus.
Dietro il raptus - il linguaggio comune e quello forense ricorrono a questo
termine per indicare la temporanea assenza dellautocontrollo - ci sono,
il più delle volte, tragedie integrali. Senza cercare nellarchivio
del passato, remoto e prossimo, basterà ricordare una delle ultime atrocità
di cui si parla, diffusa in tutto il mondo con la rapidità cui i tempi
telematici ci hanno abituato: unamericana di 36 anni, la signora Yates,
madre di cinque figli (dai sei mesi ai sette anni), dopo avere annegato i suoi
ragazzi, uno dopo laltro, nella vasca da bagno, ha telefonato al marito
dicendogli: «Penso tu debba tornare a casa». Faccia impietrita,
occhi nel nulla. Assumeva farmaci potenti per curare un grave forma di depressione.
In che stato si trovava al momento della carneficina?
Alcuni giorni fa, in Italia, il giudice che si occupa del caso della suora spietatamente
e inspiegabilmente uccisa da una coppia di giovani "sataniste", ha
protestato per la solita fuga di notizie: si è saputo anzitempo che la
perizia psichiatrica chiesta dal magistrato sulla condizione mentale delle due
donne, sostiene per loro l«incapacità di intendere e di volere».
E se per Erika ed Omar, gli adolescenti della strage di Novi Ligure, accadesse
lo stesso? Intanto, nei pressi di Roma, una madre macedone, poco più
che trentenne, ha accoltellato i due figli rimanendo poi attonita accanto a
loro.
Per riflettere e spiegare (anche in senso etimologico) come il raptus, diuturno
protagonista della cronaca nera, sia il centro di una contraddizione socioculturale
non facile da dirimere, parliamo con Angelo Aparo, cinquantenne docente di Psicologia
della devianza allUniversità della Bicocca di Milano, nonché
promotore del convegno Il Raptus, unassenza che ne compone molte altre,
al quale hanno partecipato, fra gli altri, Enzo Funari (ordinario di Psicologia
Dinamica alla Statale milanese), Federico Stella (ordinario di Diritto penale
alla Cattolica), il grecista Antonio Aloni (dellUniversità di Torino),
Giuseppina Angelini (psichiatra territoriale).
Quale, professore, il percorso attraverso il quale lei ha focalizzato la
sua attenzione, in particolare, sul raptus?
«Non sono partito dalla cronaca nera, ovviamente. La ragione principale
nasce da molti anni di lavoro in carcere, dai continui incontri con persone
che hanno ammazzato la madre, il padre, la moglie, il marito... Si tratta di
casi in cui quasi mai la sentenza del giudice ha risposto alla realtà
soggettiva della persona che ha ucciso. La quale crede assolutamente e fermamente
di non esserci stata, al momento del delitto. Preda di un raptus. Cioè
quello scoordinamento totale e momentaneo capace di condurre un essere umano
a delitti terribili senza uno scopo riconoscibile. Esistono però mille
riflessioni possibili per pensare se sia davvero questa, la migliore definizione
di raptus. Se davvero esista un momento di obnubilamento totale di cui nulla
è dato sapere, né prima, né poi».
Il
convegno milanese ha appunto riflettuto su come "storicizzare" il
raptus rispetto allindividuo.
«Il
tema è importantissimo, perché il Tribunale prescinde da questa
possibilità e domanda allo psichiatra, al criminologo, chiamati a fare
una perizia, se il soggetto, "al momento dei fatti", fosse o meno
in grado di intendere e di volere. Qui si genera il problema. Chiedendo al perito
di esprimersi sul comportamento dellaccusato "al momento dei fatti",
si punta losservazione su un determinato lasso di tempo. Su quello e basta.
Come non arrivare alla risposta più ovvia, cioè alla famosa "incapacità",
di fronte a un padre che ha ucciso il figlio tossico dopo anni di angherie,
di fronte alla moglie che si è ribellata ai feroci comportamenti del
marito, e via dicendo? Chi ha ucciso non era certo in grado, nel preciso momento
del delitto, di intendere e volere».
Da
cui la "giustificazione" di colpe tremende...
«Il perito, ogni volta, si trova di fronte a una pesante dicotomia. Da una parte, il quesito di base: va il reo punito nonostante tutto, saturando il comune senso morale e le regole sociali? Dallaltra, la riflessione: affidando il reo alla cura, facendolo tornare padrone del Sé momentaneamente cancellato dal raptus, non si lascerà pensare alla comunità sociale che in realtà lassassino sfugge alla condanna e che, da allora in poi, tutto può accadere?».
In molte occasioni, effettivamente, lorrore è tale da lasciare
interdetti.
«Poniamo
il caso - realmente accaduto - del tipo che entra armato in una scuola elementare
e uccide dieci bambini. Crea un dolore immane, allargato, insanabile. "Lui
non cera", in realtà, dice il perito. Lui non era là,
quando i bambini sono stati fatti fuori. Bisogna curarlo, recuperarlo. E i genitori
delle vittime? Si corre il rischio di generare nella gente smarrimento, sfiducia
nelle istituzioni, paura del futuro... Per il giudice non è facile prescindere
dalle madri affrante, dalle aspettative del corpo sociale, e dare invece retta
al "non cera" del perito, che consiglia di curare lassassino
per consentirgli, un giorno, di "esserci"...».
Perito
e giudice, antagonista e protagonista come nella tragedia greca.
«La tragedia greca non cerca colpe e ragioni, bensì riflette con
amarezza sulla somma di forze incoercibili che determinano il destino di un
uomo. Noi ci troviamo invece su un bivio: una strada è quella dove la
colpa è colpa; laltra conduce alle argomentazioni, considerate
eccessivamente giustificatorie, perfino lassiste, di chi insiste sulla necessità
di curare. Occorrerebbe non "tradire" il cittadino e, al tempo stesso,
tener presenti malattia, anomalia, storia personale del colpevole, appunto».
Una
condizione utopica? Chi dovrebbe, nel concreto, promuoverla?
«Chi fa cultura deve informare i cittadini sullesistenza di questa
dicotomia. Chi fa cultura ha il dovere di renderli consapevoli di come stanno
le cose, facendo loro accettare con cognizione di causa, eventualmente, una
sentenza di cura piuttosto che di pena. Il giudice è sempre espressione
del popolo che lo ha espresso e della cultura di tale popolo. Se questa cultura,
anche gradatamente, non muta, non potrà mutare, se non in rari casi,
latteggiamento di chi amministra la giustizia. Laccento discriminante,
cioè, lo lascio sugli intellettuali. A loro il compito. Che non vorrei
proprio considerare utopico».