ESPERTI A CONFRONTO SUL"RAPTUS OMICIDA"ĞUna vita in un attimoğdi EMILIA PATRUNO
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Delitti
inquietanti perché compiuti da persone normali, come tutti
noi. Scatta una molla improvvisa o è un processo che si
snoda nel tempo? Riflessioni non da poco, perché di mezzo
c'è la questione della punibilità
"Non c'è molto da dire. Sarebbe meglio riflettere sui motivi di queste tragedie, più che limitarsi agli sviluppi dell'inchiesta". Dice bene il pm di Roma, Erminio Amelio, sul caso dei due piccoli uccisi dalla madre, Jadranka Kuleva, sposata Russo, ai cronisti che chiedono notizie. Riflettere sui motivi che spingono a uccidere così, senza un motivo apparente: questo in Italia spesso non si fa. Non che manchino i casi; si pensi solo ai più recenti: Erika e Omar, le tre ragazze di Chiavenna, Jadranka, il caso di Sarah Jay, Roberto che a Sesto San Giovanni ha ucciso la fidanzata. Ma anche i molti casi di sempre, le tragedie in famiglia, gli uxoricidi. Momenti di follia, scelte distruttive e autodistruttive, imprevedibili e irreversibili. E allora spunta una parola che va bene per tutto, raptus. "Era una persona normale, con una vita normale", si dice. La storia del limite, dell'esile confine che ci separa dal nostro mostruoso doppio non riusciamo a vederla, anzi non vogliamo vederla: è un buco nero nel quale ci rifiutiamo di guardare. Delitti inquietanti perché compiuti da persone normali, che vivono in ambienti normali, con vite simili a quelle che noi tutti, pure problematicamente e conflittualmente, viviamo. Delitti che allo stesso tempo ci sembra si moltiplichino, perché riempiono i giornali e i Tg, "spettacolarizzando senza approfondire", dice Vittorino Andreoli. Delitti che permettono di scatenare emozioni altrettanto sfrenate quanto il gesto omicida. Fanno invocare pene più dure, la pena di morte. Passi, nella direzione auspicata dell'analisi e del ragionamento, ne sono stati fatti pochi. L'uomo e la sua complessità, anche quando non luccica sulla lama di un coltello, liquidata con una parola: raptus. Ma una parola non spiega niente. In controtendenza c'è stato un recente convegno a Milano. Per Lombroso, antropologo positivista ottocentesco, chi uccide è vittima di una degenerazione che si può intuire a partire dai tratti somatici del viso. Per gli esperti nostri contemporanei, tutte le persone normali sono potenziali assassini. Ogni storia di raptus mette in luce le diversità, ma anche un meccanismo ricorrente. All'incontro si sono prodotte molte definizioni e poche ipotesi. Marta Bertolino,
per esempio, che insegna Diritto penale, ha spiegato che la
parola raptus nella giurisprudenza viene utilizzata
solo per il raptus epilettico, ma come comportamento
inspiegabile all'interno dell'infermità mentale. A
proposito di imputabilità (il raptus omicida
porta con sé il problema della punibilità o
meno), di raptus non si parla. Si usano altri termini:
"reazione a corto circuito", "discoordinamento
emotivo". Il Codice, all'articolo 90, dice che "gli
stati emotivi e passionali non intervengono sull'imputabilità".
Il controllo delle emozioniIn altre parole, se è "solo" un'esplosione emotiva il soggetto paga (o avrà delle attenuanti), è dichiarato responsabile. Per legge dobbiamo avere il controllo delle emozioni, delle passioni. Federico Stella, docente di Diritto penale e avvocato, ha ricollegato queste esplosioni individuali di male alle esplosioni collettive, al "male banale" di Hannah Arendt, visto, nella prospettiva odierna, come il segno di una perdita della coscienza delle cose.
Un uxoricida, D.L., tuttora in carcere, ha raccontato il suo raptus. "Capita di non essere sé stessi. Una forma di smarrimento, una perdita dei valori intellettivi così fulminea che la stessa persona, una volta ritrovata la lucidità, non sa spiegarsi. Anzi, se lo spiega, ma resta incredula... Il raptus è una limatura della coscienza, giorno dopo giorno". Il raptus, araba fenice, bestia nera dei periti. Già, i periti, spesso in guerra tra loro. Chiamato dal tribunale, il perito deve dare risposte che devono orientare, in maniera definitiva, almeno per quella sentenza, il giudice. A volte è la difesa a interpellarlo. In entrambi i casi, il contesto non è mai quello della sua scienza, in cui c'è una diagnosi e poi una terapia. Oltretutto, nella giustizia, la terapia è la sanzione, cioè la pena, o la misura di sicurezza, se c'è infermità mentale o pericolo. È il discorso della "capacità di intendere e di volere". È sano o non è sano di mente chi uccide? "Uccidere è sempre uccidere", dice Angelo Aparo, psicologo carcerario e docente di Psicologia della devianza, a volte perito del tribunale, a volte perito di parte. "Il perito è chiamato a rispondere a una domanda sbagliata, ne paga lo scotto, obbedendo a principi mediocri, per cui fa la perizia o rinuncia. Tutti - giudici, avvocati, periti - si adeguano al falso di partenza, in una dinamica binaria: patologia o salute...". - Ma allora è giusto punire con il carcere? "In carcere", risponde Aparo, "oggi, non c'è spazio per l'elaborazione, e per molte ragioni. D'altronde, nella nostra società non esiste un'area istituzionale dove la cosa venga o possa essere trattata adeguatamente. Chi ha commesso un delitto trova nella punizione una parte di risposta pertinente; è un bisogno che va preso in considerazione perché la persona si evolva, perché elabori. Il carcere è solo punizione che schiaccia". - Cosa si può fare, allora? "Io cerco di verificare attivamente se e quanto il raptus possa essere concepito come un black out che arriva dopo aver effettuato un percorso che progressivamente chiude gli spazi per l'elaborazione. Un'azione con conseguenze gravissime di cui paradossalmente si è poco responsabili, preparata da una miriade di scelte, apparentemente secondarie, ma che hanno via via segnato i confini del campo nel quale, alla fine, la possibilità di scelta era zero. Questo potrebbe significare avere un dialogo che permetta di fare un percorso al contrario. Il percorso dipende dall'età, dalle condizioni psichiche e di realtà di chi ha ucciso". |
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