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Boncinelli: "Il male nasce con l'uomo"
Secondo il noto scienziato il male è legato alla nostra libertà d’azione e capacità di compiere valutazioni
Perché esiste il male? Da dove proviene? C’è modo di eliminarlo dal mondo? Sono domande che, prima o poi, tutti ci siamo posti e a cui di recente ha tentato di dare risposta un grande scienziato come Edoardo Boncinelli, fisico di formazione, per anni impegnato nello studio della genetica e della biologia molecolare, oggi docente alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute a Milano. Nel suo ultimo libro «Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza» (ed. Mondadori, 2007, pp. 258, 17.5 euro), presentato alla Fiera del libro di Torino, affronta il problema coniugando la grande esperienza di biologo con più ampie riflessioni di carattere psicologico, sociologico ed etico. «Il tema è stato per secoli sequestrato dai filosofi, come se in realtà non interessasse la quotidianità di ciascun uomo», spiega Boncinelli. «Così ho deciso di affrontarlo da un punto di vista scientifico, calandolo nel mondo reale, lontano da speculazioni astratte o accademiche, e concentrandomi sull’essere umano. Perché è nella natura umana la chiave per comprendere il male». Comunque, puntualizza, «vorrei fosse chiaro fin dall’inizio che non sempre comprendere e spiegare vogliono dire giustificare. Capire, infatti, appartiene al mondo dell’intelligenza e della ragione; giustificare al mondo dei sentimenti e delle valutazioni etiche, personali o pubbliche che siano, e socio-politiche».
Professor Boncinelli, cos’è il male?
L’uomo chiama collettivamente male un certo numero di cose diverse: il dolore, la malattia, l’infermità, la consapevolezza della morte, il senso di inadeguatezza, la paura, l’ansia, la noia, il desiderio inappagato, la perdita, il sentimento dell’ingiustizia, la percezione della cattiveria e dell’invidia. In ogni caso, si tratta della constatazione di una certa differenza tra ciò che è e ciò che ci aspetteremmo che fosse. Che poi sarebbe il bene… In natura nozioni quali male e bene non hanno alcuna ragione d’essere: entrambi scaturiscono dai nostri giudizi di valore, che non si addicono certo al mondo naturale. Nessun animale si sognerebbe mai di biasimare o lodare le proprie o altrui azioni, a motivo, non fosse altro, della sua ben limitata libertà di scelta. Insomma è con l’uomo che compare il male: nasce con l’uomo e rimane circoscritto al suo mondo. Per lamentarsi, o per rimpiangere, occorre infatti la capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro possibili alternative, compiendo un’azione riflessiva e comparativa che negli animali anche più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato.
Quanti tipi di male esistono?
Nella mia indagine ho individuato tre categorie, distinte concettualmente in base all’individuazione delle responsabilità: il male che non ci deriva dal comportamento di un altro umano, quello causato da qualcuno e, infine, quello che proviene dal mio modo di essere, cioè il male insito in me. Come tutte le classificazioni è una semplificazione, magari eccessiva e arbitraria, ma mi pare comunque uno strumento utile per guardare negli occhi i diversi volti del male.
Partiamo dunque dal male indipendente dalla volontà dell’uomo: di che si tratta?
Si tratta anzitutto del dolore fisico, che può provenire da stimoli esterni al nostro corpo o interni ad esso. Per sua natura, è un campanello di allarme (c’è qualcosa che non va fuori o dentro di noi) e deve per forza farsi notare. La percezione del dolore fisico è talmente importante per la sopravvivenza e l’integrità dell’organismo che esistono strutture biologiche specificamente dedicate a questo: i «nocicettori», particolari terminazioni nervose, che rilevano gli stimoli dolorosi nelle diverse parti del corpo e li inviano al cervello sotto forma di segnali nervosi, passando attraverso il midollo spinale. Lungo il percorso si presentano varie occasioni che permettono di attutire (o eventualmente esaltare) l’intensità dello stimolo doloroso. Il quale viene comunque recepito nel suo pieno significato e nella sua intensità solo nella corteccia cerebrale. Ora, se è vero che il dolore è un fatto naturale ed è stato selezionato perché aumenta la probabilità di sopravvivenza dell’organismo, non per questo noi uomini dobbiamo provare necessariamente dolore, soprattutto se è intenso e inutile. Un corpo sofferente non si fortifica, ma si indebolisce. Un sistema nervoso sofferente non si tempra, ma si sfibra. Il controllo del dolore è stato uno degli strumenti più rilevanti escogitati negli ultimi decenni per consentire a un essere umano di conservare la propria dignità. Ed entro ampi limiti, ci siamo riusciti attraverso la messa a punto e l’impiego di analgesici e narcotici.
Quale rapporto esiste fra la sofferenza per un male fisico e quella per un dolore psichico?
Oggi sappiamo che alcune aree cerebrali che si attivano in presenza di un dolore fisico si attivano anche in presenza di un forte dolore psichico, i cui sintomi somatici sono molto simili. Ed è interessante notare come molti di questi sintomi insorgano nelle regioni pericardiche (la classica “fitta al cuore” per un grosso dispiacere), dove si prova direttamente l’effetto dell’accelerazione improvvisa del battito cardiaco. Inoltre, proprio come il dolore fisico, anche quello psichico, almeno nella sua forma di dispiacere per una perdita o per un fallimento, ha all’origine una funzione di allarme e di spinta verso un cambiamento: occorre anche in questo caso fare qualcosa, benché non sia sempre così facile individuare che cosa. Più in generale, il dolore psichico appartiene al grande capitolo delle emozioni, movimenti somatici interni scatenati da qualcosa di visto o sentito o anche solo pensato: e questa è la più grande differenza rispetto al dolore fisico.
E che dire delle malattie, altro capitolo del male “indipendente” dalla nostra volontà? Perché ci ammaliamo?
Il punto centrale della questione è che nessuno può dirsi perfettamente e assolutamente sano, nemmeno in un particolare momento della sua vita. Qualche processo patologico è sempre in atto, in ciascuno di noi, in ogni momento. Esistono così tante forme diverse di malattia che non ci si deve meravigliare che qualcuno sia malato di qualche male, ma piuttosto che qualcuno sia sano, almeno momentaneamente. Esistono insomma infinite maniere di essere malato, ma una sola di essere sano, e la probabilità non gioca a suo favore. Questo vale per batteri e virus, che ci attaccano non certo per malvagità ma per nutrirsi e riprodursi, e vale anche per i tumori. I tumori che diagnostichiamo rappresentano le battaglie perse: il grande numero di battaglie vinte, in ogni parte del corpo e in ogni momento della nostra vita, passa ovviamente inosservato. Purtroppo il corpo può perdere lo scontro e lo fa in misura crescente con il passare degli anni. Ovviamente non è solo questione di tempo che passa: esistono sostanze e stili di vita che aumentano la probabilità che nelle cellule si formino nuove mutazioni e che quindi si proceda alla formazione di un tumore.
Perché invecchiamo?
Perché alla natura non interessa quello che ci succede dopo l’età riproduttiva. Fa di tutto per portarci a 30-35 anni in condizioni psicofisiche ottimali, e poi ci abbandona. Non è quindi una condanna ineluttabile, ma il risultato di un abbandono. E i viventi abbandonati a se stessi non vanno molto lontano, tendono a degenerare, perché obbediscono al secondo principio della termodinamica, che sancisce l’inevitabile, continuo aumento dell’entropia, cioè del disordine nel suo complesso.
Con il passare del tempo le diverse parti del nostro corpo si usurano come qualsiasi componente di una macchina meccanica da noi costruita. A differenza di quest’ultima, però, le parti usurate del nostro corpo possono venire riparate sul posto e in tempo reale da meccanismi presenti nel corpo stesso. I processi di riparazione, però, sono estremamente efficaci nella prima età e sempre meno incisivi via via che l’invecchiamento avanza. Tali processi sono controllati a loro volta da altrettanti geni, che sono il prodotto della selezione naturale: alcuni, quelli corrispondenti alle riparazioni da eseguire prima dell’età riproduttiva, sono selezionati rigorosamente ai fini della massima efficienza; tutti gli altri vengono selezionati sempre più stancamente. Il risultato è che, episodio dopo episodio, si accumulano i danni dell’età in tutte le strutture biologiche, dalle più grandi (come i vasi sanguigni e le ossa) alle più piccole (come le membrane cellulari o lo stesso dna). Ogni singolo difetto può avere ben poca importanza, ma il complesso di tutti quelli accumulati dalle diverse strutture biologiche porta a un lento decadere delle strutture vitali che condurrà prima o poi alla morte. Quest’ultima può sopraggiungere per una varietà di motivi diversi, ma comunque sopraggiungerà, inevitabilmente.
Che dire, ancora, delle catastrofi naturali come inondazioni, siccità, terremoti, epidemie?
Ci troviamo a vivere in uno spazio ristrettissimo, in circostanze che, più che fortunate potremmo definire miracolose. Abitiamo infatti su un pianeta dalla struttura e dal clima particolarmente stabilizzati, nonostante abbia un cuore di fuoco e un’atmosfera protettiva dall’equilibrio delicato. Viviamo confinati in regioni ristrette di una fascia superficiale spessa soltanto qualche centinaio di metri (come dire un millesimo del diametro del pianeta). La posizione della Terra nello spazio e la presenza dell’atmosfera fanno sì che la temperatura della “scorza” abitata sia incredibilmente stabile e mite (se considerata in rapporto a temperature fisicamente possibili nell’universo). Solo grazie a queste condizioni e alla loro stabilità, la superficie del pianeta si è andata riempiendo di organismi viventi di tutti i tipi, legati gli uni agli altri dalla catena alimentare. Date queste premesse, l’unica cosa sensata è meravigliarci ogni volta che spunta un nuovo giorno. Ma questo non è nella nostra natura e ci lamentiamo, al contrario, di ogni turbativa dell’ordine costituito. Ciò è da attribuire al fatto che ormai ci siamo abituati a quello che abbiamo, al punto che ci sembra “dovuto”. La nostra necessità di identificare sempre una causa di ogni evento, inoltre, esclude quasi automaticamente l’accettazione del fatto che qualcosa possa accadere per caso. L’idea di casualità è una delle più difficili da cogliere per la nostra mente, perché implica la totale imprevedibilità. Il male delle cose, in definitiva, deriva dalla posizione “unica” in cui si trova la vita in generale: è la vita il vero “scandalo” dell’universo, e ancor più la vita della civiltà. Entrambe esistono per miracolo e sono sempre in pericolo di estinzione.
Passiamo alla seconda macro-categoria: il male voluto e compiuto da qualcuno. Perché esiste?
Anche se è sempre il singolo che compie il male, questo può essere compiuto individualmente, cioè in relativo isolamento, in maniera spesso improvvisa e sotto la spinta di urgenze proprie, oppure lo può compiere una collettività più o meno estesa, sotto la spinta e per istigazione di istanze comuni. La responsabilità morale non cambia. Siamo gli animali di gran lunga più liberi, ma proprio per questo dobbiamo in qualche maniera riempire il vuoto lasciato dal depotenziamento degli istinti, tanto sul piano cognitivo quanto su quello comportamentale. A questo provvedono l’istruzione e l’educazione, prima all’interno del nucleo familiare, poi per opera della società in cui viviamo. Così non ci affidiamo più agli istinti, ma viviamo consultando in continuazione il codice di comportamento che abbiamo appreso e che approviamo in larga misura. Molti dei precetti che adottiamo come società (non uccidere, non rubare, non offendere, non ingannare…) mirano in definitiva a rendere il mondo meno imprevedibile e, conseguentemente, più sicuro per tutti. Ma in genere non basta sapere che cosa si dovrebbe o non si dovrebbe fare: si può benissimo sapere che cosa è giusto e non farlo e che cosa è sbagliato e farlo ugualmente. Perché l’uomo non è solo razionalità e conoscenza. Lo è anzi solo in minima parte. La mia impressione è che, una volta che l’individuo si trovi in una certa situazione psicofisica avviata al compimento di una violenza, sia molto difficile fermarsi. È come se esistesse cioè un punto di non ritorno, superato il quale le cose vanno avanti quasi da sole. La strategia migliore è evitare di innescare il meccanismo e esercitare il raziocinio finché è ancora possibile il controllo della situazione. Dentro di noi sonnecchia sempre una fiera: tutto sta nel non farla risvegliare. I più stentano a credere che, appena sotto la scorza dell’educazione e del rispetto reciproco, l’uomo sia rimasto sostanzialmente un animale. Ma è un errore di prospettiva, come di chi pensasse che non esistono più i batteri perché li sappiamo controllare con disinfettanti e antibiotici: se non li combattessimo in continuo, tornerebbero micidiali come una volta. Un essere vivente senza aggressività, d’altronde, sarebbe in grave svantaggio rispetto ai suoi simili.
La terza e ultima categoria è quella del male interiore: da dove nasce?
Nessun animale si chiede perché vive: vive e basta. E fa di tutto, più o meno consapevolmente, per mantenersi vivo e dare alla propria prole l’occasione di vivere. A complicare le cose nell’uomo interviene una corteccia cerebrale particolarmente sviluppata che ci consente di possedere consapevolezza e progettualità, e dunque di mettere in relazione eventi diversi, talora lontani nello spazio e nel tempo. E mettere in relazione equivale a chiedersi perché e a che fine. Dato che non c’è sempre un perché o un fine, la nostra mente riscontra una disparità e la nostra anima prova una delusione e un profondo disagio. La maggior parte di noi va avanti comunque, godendosi anche i vantaggi e le soddisfazioni di tutto ciò che la nostra mente ci permette di conseguire. Sullo sfondo resta però sempre l’ombra del mondo che non è quello che credevamo. Non ci sarebbe forse alcun problema se sapessimo autoingannarci fino in fondo. Ma non è così. La nostra inesorabile corteccia cerebrale non ce lo permette: fruga, mesta, registra, compara, interroga, ipotizza, verifica e poi ci presenta il conto. In definitiva, il clima interno dell’uomo sembra affine al male perché in perpetua attesa di qualcosa e sbilanciato verso il futuro. L’uomo è progetto, ma il progetto è una mancanza e non certo una pienezza. Da qui nasce il disagio interiore che può sfociare, nei casi più gravi, nella depressione, cioè in una vera e propria patologia.
Perché ha deciso di intraprendere questo viaggio nel male?
Credo che una riflessione sul male, soprattutto nell’uomo, abbia un motivo di interesse e urgenza del tutto nuovi, che si vanno ad affiancare a quelli esistenti già da sempre: non passeranno molti anni, infatti, che ci troveremo ad affrontare l’interrogativo veramente epocale sul se e come modificare il nostro patrimonio genetico. Sarà necessario aver riflettuto a fondo su cosa è bene e cosa è male nelle nostre disposizioni e nella nostra indole, in modo da riuscire, eventualmente, a modificarci per il meglio e non per il peggio. Nel momento in cui sarà effettivamente possibile cambiare alcuni aspetti della nostra natura biologica profonda, occorrerà rivedere molti concetti ai quali abbiamo fino adesso prestato un’attenzione superficiale, perché ritenevamo di non avere alcun potere su di essi. Cercare di stabilire i confini del bene e del male può rappresentare l’inizio di una riflessione su dove vogliamo andare, come specie e come individui.