CARCERI CARCERATI E SOCIETA' CIVILE Convegno del Rotary Club Milano
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Livia Nascimben | 19-02-2004 |
Il Presidente del Rotary Club Milano, Prof. Luciano Martini, apre l’incontro con un rintocco di campana, poi chiede a relatori e cittadini di alzarsi in piedi per l’Inno Nazionale, a cui è seguito l’inno alla gioia dalla Nona Sinfonia di Beethoven.
E’ presente il Governatore del Distretto 2040 Dott.ssa Alessandra Faraone Lanza.
Il moderatore è il Prof. Mario Talamona, ordinario di Politica Economica all’Università Statale di Milano, Past President Rotary Club Milano.
Si ringrazia il Dott. Giampietro Borasio per avere contattato gli ospiti.
Di seguito la sintesi di alcuni degli interventi.
Luigi Pagano, direttore carcere di San Vittore
Il direttore del carcere come interlocutore della popolazione carceraria
Il direttore come interlocutore è da vedere in una duplice accezione:
• interlocutore verso l’interno, con i detenuti e con gli operatori carcerari;
• interlocutore verso l’esterno, con le altre istituzioni.
Il direttore svolge la funzione di coordinatore di ogni area, è responsabile della sicurezza in concorso con il corpo di polizia penitenziaria, della sanità insieme all’equipe medica. In osservanza dell’obiettivo del reinserimento del detenuto, deve coniugare con creatività l’istanza di sicurezza all’interno del carcere e la coltivazione degli interessi del detenuto, cercando di armonizzarle quanto più possibile affinché una non prevalga sull’altra.
Al di là delle contraddizioni intrinseche al carcere, c’è il problema dei mezzi e delle risorse a disposizione. E’ carente il numero di operatori dell’area trattamentale che possono incidere sul livello di pericolosità dei singoli detenuti.
Un altro problema è quello della popolazione carceraria costituita prevalentemente da stranieri e tossicodipendenti. Il problema dell’emarginazione, del permesso di soggiorno, del lavoro e della casa, mettono in crisi le regole di fondo del carcere.
Un detenuto può usufruire delle misure alternative se all’esterno ha una famiglia che può garantire per lui; per il detenuto straniero si realizza la condizione tale per cui deve scontare tutta la sua pena dentro. Il sovraffollamento colpisce le persone che rimangono al suo interno e il carcere perde le sue connotazioni originarie.
In accordo con l’articolo 27 della Costituzione Italiana, un direttore ha il compito di cercare di rendere migliore la vita carceraria. Spesso queste iniziative vengono bollate di buonismo. Ma si tratta di un dovere.
Lo sforzo deve andare nella direzione di un utile sociale, per dare dignità al detenuto, per il suo reinserimento, perché possa, una volta uscito dal carcere, imboccare una nuova strada, altrimenti si rischia che le persone escano peggiori.
Il tempo in carcere non porta guadagno alle persone, né alla società né al detenuto. Il fallimento dell’ordinamento penitenziario è dovuto alla non considerazione dei diritti dei detenuti. Questo è il momento per intervenire affinché i diritti siano affermati e riconosciuti.
Maria Sodano, giudice di sorveglianza
Il Giudice di Sorveglianza tra azione di rieducazione e tutela dei cittadini
Il cittadino si sente sicuro quando si sente protetto, quando si sente tutelato dal diventare parte offesa subendo un reato. Gli organi di polizia sono deputati alla prevenzione e alla vigilanza.
Ma come vigilare e come prevenire?
I cittadini chiedono città blindate e la vigilanza su strada per impedire i reati, ma io penso che la prevenzione sia cosa più seria. Occorre avviare indagini sulla criminalità, conoscere i gruppi criminali, nel momento in cui si riescono ad individuare, si può conoscere un fenomeno e farvi fronte avendone meno paura.
La rieducazione è il contro-specchio della società esterna.
Si pensa che sia risolto il problema della sicurezza quando un reo viene condannato e messo in carcere, ma in termini sociali ciò è sbagliato. Il carcere non è nascosto, i detenuti sono uomini che vivono e che, se non sono aiutati ad avere un ripensamento serio su quanto commesso, sono messi nella condizione di non nuocere per il tempo della pena, ma non alla loro uscita.
Il problema della rieducazione è da intendersi come adozione di principi di civiltà, a cui è legata la questione della prevenzione. In carcere bisogna far crescere uomini che non commettono più reati perché si sono convinti che il reato non paga ed esistono esperienze più belle da vivere.
Questo discorso si traduce nell’applicazione di misure penitenziarie alternative, modalità diverse di espiazione della pena: il magistrato di sorveglianza valuta le persone, le conosce e decide sulla loro libertà con l’avvio di percorsi rieducativi.
Il carcere deve essere una fucina, la base del discorso di prevenzione e rieducazione.
Non bisogna dimenticare che il reato ha sempre una parte offesa. Il trattamento del detenuto deve partire proprio da questo: fuori dal carcere c’è una persona che soffre per un abuso subito. Il detenuto è tenuto alla riparazione del danno, a dare un segnale di conquistata libertà, ad accettare le proprie responsabilità.
Maria Rosa Bartocci, vedova del gioielliere ucciso nel ’99 in una rapina
Il reato dal punto di vista di chi lo soffre
Sergio Cusani
Nella crisi del mercato del lavoro il reinserimento dei detenuti e degli ex-detenuti
Il mercato del lavoro è in crisi e come pensare di trovare spazio per coloro che hanno commesso dei reati senza prevaricare, o far sentire prevaricato, chi è sempre stata una persona onesta?
E’ importante trovare un’alleanza fra le parti. Trovare delle nicchie dove sia possibile fare impresa come alternativa al carcere; dare valore sociale all’essere umano attraverso il lavoro, rendere i detenuti soggetti a tutti gli effetti.
Sono necessari progetti di reinserimento per coltivare le parti più propositive del sé.
Carlo Ravizza, rappresentante mondiale del Rotary, interviene sottolineando come il suo Club si adoperi per mettersi al servizio della società; e Andrea Schiatti, altro membro, parla di un progetto-cerniera del Rotary tra la domanda delle imprese e l’offerta di carcerati.
Dino Duchini, rappresentante delle cooperative di lavoro tra i detenuti
Formazione e Lavoro nelle cooperative del carcere
Dino è emozionato e preferisce leggere l’intervento preparato.
Come membro del Gruppo della Trasgressione, apre una parentesi, rivolgendosi alla signora Bartocci, sul Confronto rapinatori/rapinati, un tema di discussione e confronto agli incontri del gruppo.
Sono stato un rapinatore, non mi sono macchiato del delitto di sangue, ma sarebbe potuto succedere. Al gruppo indaghiamo le motivazioni che possono spingere al reato e cerchiamo di lasciare spazio all’espressione di quei sentimenti che hanno condotto ad azioni criminose. Ci confrontiamo con gli studenti, parte di società esterna, con l’obiettivo di recuperare le emozioni di vittime e carnefici e le diverse strategie per farne fronte. Desideriamo avere un confronto anche con i cittadini comuni: se ne avrà piacere – parlando alla signora Bartocci – è invitata a venire in carcere al gruppo.
Angelo Aparo, Università di Milano Bicocca, psicologo a San Vittore
L’esperienza della devianza e il Gruppo della Trasgressione a San Vittore:
Mi ha colpito che il convegno sia iniziato con le note dell’Inno di Mameli e dell’Inno alla gioia, un invito al rinnovamento.
Il tempo in cui una persona commette rapine permette di porsi delle domande? Le domande al tempo delle rapine erano articolate? Chi ha ucciso il marito della signora Bartocci si è potuto fare le domande? Chi mangia e vomita può farsi le domande? E chi ha paura di entrare in ascensore sa porsi domande per superare il suo sintomo?
No! Nel tempo in cui un individuo ha un sintomo o abusa del proprio potere sull’altro non c’è spazio per articolare domande, le domande non riescono a farsi strada nella mente. Il sintomo e il comportamento deviante sostituiscono una domanda; il surrogato che ne vien fuori è una domanda male assemblata ad un interlocutore dall’identità confusa.
In carcere c’è tempo, ma non c’è il tempo della domanda. La pena viene espiata in attesa che il tempo ricominci a scorrere al suo termine.
Il gruppo della trasgressione si pone delle domande. Al gruppo non ci sono solo detenuti ma anche studenti che insieme si pongono domande sulle spinte che portano a commettere i reati ma anche in relazione a sintomi più comuni, come ad es. quelli di studenti che non fanno esami per quattro anni e trovano in Dino uno stimolo a continuare, mentre lui guadagna la voglia di reinventarsi.
Aparo si interrompe e lascia a Ivano Longo metà del tempo previsto per il suo intervento,
Ivano, membro del gruppo della trasgressione e detenuto a San Vittore
legge lo scritto “Allargare gli orizzonti” e aggiunge una piccola nota.
A proposito di domande, prima me ne sono posto una: perché non sento il desiderio di scappare? E perché non scappo? Un tempo mi drogavo dalla mattina alla sera e vivevo di quello che capitava, mentre ora ho il MIO gruppo della trasgressione, gli studenti e Aparo e non ho più bisogno di scappare.
Walter Vannini, criminologo e sociologo a San Vittore
Tra pena e opportunità, lavorare col carcere
Il carcere può essere un luogo di formazione, è importante lavorare dentro e attorno al carcere, lavorare CON il carcere. L’ingresso in carcere della società civile e di libere professionalità è importante per la salute di tutti.
Il carcere rappresenta il fallimento delle nostre speranze. Non diminuisce la criminalità, né la propensione al crimine, né la recidiva. Il carcere non serve!
Storicamente il carcere è stato concepito in tre modi differenti:
Ostacolare l’ingresso in carcere ai cittadini liberi significa perdere un aspetto del trattamento. Allo stesso tempo, i detenuti devono uscire dal carcere, devono essere fatti uscire, bisogna scommettere su di loro perché ciò è essenziale per la nostra sicurezza e per riconoscere il delitto come contraddizione sociale.
Non facciamo i carceri-cittadella.
Il trattamento per i detenuti è uscire!
Mirella Bocchini, presidente associazione “Incontro e Presenza”
Il ruolo del volontariato rispetto ai problemi dei detenuti
Ai detenuti in questi anni di volontariato ho posto alcune domande per meglio capire la funzione del volontario in carcere. Chi è un volontario per un detenuto? Cosa hanno in comune volontario e detenuto? Perché il reato? Per cosa si vive?
Il volontario è una persona che permette di sentirsi vivi, di dare speranza; con il detenuto condivide il desiderio di felicità e di realizzazione personale.
Il detenuto spesso commette reati per provare eccitazione, adrenalina, allontanandosi dal dovere fare esperienze lavorative noiose o poco retributive. E’ importante per lui percepire che il volontario si pone la domanda sul perché valga la pena vivere, affinché la possa trovare anche dentro di sé: i bisogni e i progetti si custodiscono all’interno di un percorso comune.
Barbara Campagna, educatrice a San Vittore,
parla del ruolo cardine degli educatori nell’attività trattamentale del detenuto, evidenziandone risorse, problemi e prospettive.
Amerigo Fusco, coordinatore di un reparto a San Vittore,
evidenzia l’importanza del ruolo svolto dal corpo penitenziario all’interno del carcere per quanto riguarda la sicurezza e il trattamento; un ruolo in evoluzione spesso svolto nel silenzio.
Dopo gli interventi programmati, si passa agli interventi prenotati, tra cui:
La Dott.ssa Maria Sodano che esprime la sua contentezza per aver fatto una prognosi corretta su Ivano Longo e avergli dato la libertà, se pur per sole 12 ore; e risponde a Dino sulla “certezza della speranza”.
La certezza della speranza deve essere nel detenuto, deve nascere da una revisione critica del proprio vissuto, da lui deve nascere una domanda; poi la magistratura lavora per darne risposta.
Un esponente del Rotary Club riporta agli occhi di tutti la stretta di mano fra Dino, detenuto a San Vittore, e la signora Bartocci, vittima di un reato, ed offre alcuni spunti di riflessione: leggere gli interventi dei relatori come l’espressione del codice materno e del codice paterno, utilizzare i codici familiari per approcciare il carcere e l’importanza di coniugare il codice del perdono a quello della punizione.
Prendono la parola anche Pippo Natoli e Diego Ludovico, due membri del gruppo della trasgressione interno:
Pippo Natoli
Ho un carattere ribelle e poca cultura ma sono un gran lavoratore.
Penso che il carcere è bene che sia a misura d’uomo: vale la pena tentare di dare fiducia ai detenuti!
In questa ricca giornata di interventi vorrei che un pensiero andasse ai famigliari dei detenuti, nostre vittime indirette e che si sottolineassero le difficoltà di rapporto fra genitori detenuti e figli.
Nella mia vita ho fatto tanti errori, ho fatto scelte sbagliate, ma conoscevo solo quelle; qualcuno mi deve insegnare altre strade! Il problema delle scelte è centrale: Ivano ha potuto scegliere di non scappare perché lavorando col gruppo della trasgressione ha acquisito maggiori strumenti per scegliere.
Diego Ludovico
Sono in carcere per un raptus; ho lavorato una vita intera e poi mi è venuto un raptus.
Faccio parte del gruppo da 6 anni; lavorando con Aparo, altri detenuti e gli studenti, ho imparato ad esprimermi. Nella vita fuori non riuscivo a comunicare, a farmi capire.
Penso sia importante vedere oltre la finestra, oltre le sbarre; la mente si apre mentre parli di diversi temi, la sfida, l’imperfezione, il male, la pedofilia.
L’incontro si chiude al suono della campana. E relatori e cittadini sono invitati a spostarsi nell’area buffet, dove si continua a scambiare impressioni sulle tematiche sollevate al convegno e si progettano nuove iniziative di confronto fra carcerati e società.