Gianni Vattimo individua l'origine storica del pensiero debole nella crisi del progetto politico e filosofico degli anni che vanno dal Sessantotto ai primi anni Ottanta. Questa crisi si determina come tramonto della pretese ad una razionalità unica e universale. Ma il pensiero debole, dice Vattimo, si richiama ad una interpretazione della "differenza ontologica" che unisce idealmente il pensiero Nietzsche. Vattimo illustra la sua interpretazione della storia dell'Occidente come "indebolimento" progressivo dell'essere, e intende questa interpretazione come deducibile da una coerente interpretazione della "differenza ontologica". Nella sua ricostruzione della storia dell'Occidente come indebolimento progressivo, Vattimo considera vari momenti di esso: il Cristianesimo, la scienza moderna. Ma non si oggettiva l'essere parlando comunque di una sua storia? Vattimo spiega che questo non accade nell'"interpretazione" di cui parla l'ermeneutica: nell'interpretare si è sempre dentro l'essere senza renderlo oggettivo a noi stessi. Sul piano politico ed etico il pensiero debole si caratterizza per la critica delle posizioni basate su valori assoluti. Ma neanche questa posizione si chiude entro una prospettiva relativista: questa sarebbe infatti non meno metafisica. I superamento del relativismo si ha nella fusione di orizzonti di cui parla Gadamer. Rispetto al movimento postmoderno Vattimo si distingue in quanto ritiene che mantenere la differenza ontologica, e quindi il concetto di essere, serve ad evitare di assolutizzare gli enti, la realtà come essa immediatamente si presenta.
Noi esponiamo l'essere del mondo, sempre, - dice Heidegger - dentro a degli "a priori" - facciamo l' esempio dell' "a priori" kantiano, perché è il riferimento più evidente -, ma degli "a priori", che sono storicamente condizionati dalla nostra mortalità. Quindi l' "apriori" di Kant è per Heidegger il linguaggio storico-culturale di una certa epoca. E' vero, io non accedo al mondo se non dentro a delle strutture preliminari, che ho appreso, ma non dalla mia "ragione" eterna, dal linguaggio, che mi è stato tramandato, il mio linguaggio naturale, che però è naturale, ma anche storico, cioè è il linguaggio della mia società, che proviene da un'altra, è un linguaggio, delle parole che hanno un'etimologia. Ora, questo è il nocciolo dell'ontologia heideggeriana: io all'essere accedo attraverso, diciamo, dei preliminari, delle condizioni di possibilità, che sono non le condizioni " a priori" della ragione strutturata, eterna, kantiana, ma che sono le ragioni, sono delle condizioni possibilitate dalla mia che ho ereditato, che hanno una provenienza, che si trasforma nel tempo, e questa è la storia dell'essere. Ma questa storia dell'essere, come dicevo, non può che essere interpretata coerentemente, dal punto di vista heideggeriano, secondo me, se non come indebolimento. Perché? Perché effettivamento se io non ho, se voglio dimostare la verità di Heidegger, se voglio dire insomma: Heidegger ha ragione piuttosto che un altro. Come faccio? Non posso descrivere l'essere in termini heideggeriani, perché questo è giusto quello che Heidegger non vuol fare. L'essere non è un oggetto che posso descrivere, mostrare, dire: ecco è fatto così, piuttosto che cosà. Allora in fondo, è quello che Heidegger poi fa nella seconda fase del suo pensiero, la sua validità di questa tesi è tutta argomentata in relazione ad una provenienza. Heidegger rilegge Parmenide, Anassimandro, Nietzsche, i poeti, cioè argomenta la validità della sua concezione dell'essere come differente, eventuale, che accade, storico, eccetera, l'argomenta in relazione ad una storia. E' come quando se non argomentiamo in termini metafisici: "Ti mostro che l'Essere è così", argomentiamo in termini retorici, storici. Dice: "Ma come tu, dopo aver letto Marx, Nietzsche, Freud, puoi ancora dire questo? Ma rileggi, pensa un po'." . E questo è il nucleo del discorso hedeggeriano alla fine, secondo me. Cioè si oppone a una argomentatività metafisico-oggettivistica della filosofia una argomentatività, che, con termine heideggeriano, possiamo chiamare storico-destinale, dove la parola "destino" non vuol dire fatalità, ma vuol dire qualche cosa che non è puro arbitrio. "E' andata così" - dice -"ah, beh è andata così, ma poteva andare diversamente."Sì, però che sia andata così mi segna ed è dentro a quell'orizzonte che io mi muovo, anche per modificarlo, ma sempre con un'eredità.". Ed è questo: l'eredità è l'unica cosa che mi permette di accedere al mondo, visto che non ho la "ragione" eterna, visto che l'essere non è una struttura eterna, ma anche l'oggettività del sapere moderno, della scienza moderna è un prodotto storico, avviene dopo certi eventi, dopo che ci sono state delle scoperte di strumenti, che permettono di guardare il cielo con il telescopio. Dunque noi stiamo dentro a questa provenienza. Heidegger gioca molto con la parola tedesca "Ueberlieferung", che del resto è anche la parola italiana: "tra-dizione", che però noi non sentiamo più come "tra-mandamento", "tra-smissione", "invio", eccetera. E lui, quando parla di destino, parla principalmente di questo: non tanto di una struttura di nuovo oggettivamente fissata dell'Essere, ma parla di un "tra-mandamento". Io ricevo sempre - come nella staffetta -, ricevo il testimone, lo trasmetto ovviamente, posso vincere o perdere, se corro veloce o no, dipende anche molto da me, come va avanti questo "tra-mandamento". Però certo sono su una via, mi ci trovo, la butto, devio, mi ferme, ma sempre proseguendo un "tra-mandamento". Allora, si parla di storia dell'essere. Questa storia che parte, mettiamo, nel pensiero occidentale, da Parmenide -dice: "L'essere è, l'essere non è" e arriva ad Heidegger, che dice, mettiamo: "L'essere è eventualità pura, un vento" - questa storia che senso ha se non un senso di diminuzione di strutture forti. La differenza tra Parmenide ed Heidegger è che uno pensa all'essere, - idealizziamo naturalmente Parmenide per quello che ha significato poi nel linguaggio filosofico -, per me è uno che pensa all'essere come un grosso oggetto stabile, fermo, che non si muove e Heidegger lo pensa come un evento.
Gianni Vattimo ripercorre le origini della critica alla tecnologia della civiltà industriale. Fu il positivismo, che la faceva da padrone nella seconda metà del XIX secolo, a magnificare in filosofia l'impatto della razionalizzazione industriale del lavoro che dilagava in tutti i settori della società. Questo processo viene criticato da personaggi come Wilhelm Dilthey che con il suo "Verstehen", la libera interpretazione dei fenomeni storici, spiega che la Storia non può essere oggetto di una spiegazione scientifica generale. Vattimo afferma che le avanguardie del primo Novecento come l'Espressionismo, il cubismo, il dadaismo e il surrealismo si configurano come ribellione dello spirito contro le catene della forma.
Il dramma della libertà dell'uomo, sempre più compressa negli ingranaggi di una società schematica,viene descritto nel libro "Essere e Tempo" da Heidegger. Il filosofo tedesco avanza l'ipotesi che la nostra cultura ha dimenticato l'essere che sembra disintegrarsi in quella che Husserl chiama l'"Ontologia regionale" delle scienze: l'Essere è ridotto all'oggettività scientifica, tutto il resto non è. Ma questo ha per l'uomo delle conseguenze devastanti: perché gli uomini non sono riducibili alla datità verificabile scientificamente come,invece,la scienza vorrebbe far credere prefigurando un uso anti-umano della tecnologia.Husserl nel suo libro "La crisi delle scienze europee" ribadisce che il binomio tecnologia-uomo pone dei problemi etici, politici e sociali dalle ripercussioni drammatiche.Nel Novecento gli epigoni del Positivismo,i neopositivisti ed i neoempiristi,non assumono una posizione acriticamente apologetica della scienza.Karl Popper,infatti,con il suo libro "La società aperta e i suoi nemici" mette la scienza al servizio di un discorso etico-politico.
Anche la scuola di Francoforte ha contestato i meccanismi della modernizzazione tecnologica che sono diventati oppressivi.Ne "L'organizzazione totale" di Adorno c'è l'idea che la razionalizzazione tecnologica della società comporti un rischio di un totalitarismo politico.Inoltre la tecnologia darebbe luogo per Adorno alla società del grande fratello.Ma quando,come oggi, la tecnologia diventa tecnologia della comunicazione-dice Vattimo-l'immagine del mondo non è più una ma è molteplice.Questo fa si che la potenza totalizzante dell'informazione porti con sé una sorta di antidoto permanente,cioè che non prendiamo più tanto sul serio l'informazione che ci viene fornita.
Tempo - Storia ed Effettività: Appigli forti del Pensiero Debole
Nella precedente Nota siamo partiti da un'affermazione tanto forte quanto generica, la ripetiamo: la nostra epoca ha, per così dire, il tratto della rarefazione. Ogni inizio è oscuro (diceva Gadamer) e chi scrive ne è consapevole, così si è scelto di iniziare con una tale sentenza poiché sembra render conto di ciò che diverse famiglie filosofiche hanno, nel corso della contemporaneità, assunto - chi nel senso di una progressiva erosione di strutture stabili, chi nel senso di un cambiamento radicale - come paradigma che meglio di altri ha potuto tradurre e riassumere l'esperienza del tempo tardo-moderno (o postmoderno se si vuole); paradigma che nel "costruire un ponte" fra tradizioni di pensiero apparentemente lontane ne ha così determinato un punto di contatto. Fin qui, pertanto, si è cercato di tracciare una mappa che indicasse all'interno di questa vasta 'area geografica' un'isola d'approdo da cui poter ripartire. Si è voluto trovar ancoraggio in quelle proposte filosofiche che hanno pensato il XX secolo come l'epoca dell'oltrepassamento della metafisica, o meglio (e in linea più generale) come l'epoca del tramonto delle pretese ad una razionalità unica e universale. Filosofie della Krisis, filosofie del crepuscolo della civiltà "dell'ousia". Filosofie che segnano il nostro tempo e che per contrappasso sono a loro volta segnate da esso; così, non essendosi dileguato il vecchio tentativo che fa della filosofia un 'voler essere il proprio tempo appreso con il pensiero' e poiché il nostro occhio 'si radica' a partire da ciò che gli è più prossimo, all'interno della curva che ha solcato il 900' abbiamo guardato al pensiero debole, la cui vicinanza a noi è attestata (almeno
.) da una 'geofilosofia' dell'Oggi. Qui Heidegger e Nietzsche si guardano l'un l'altro, e il pensiero vi passa attraverso trovando la via che porta dal primo al secondo e viceversa; qui si sente il frastuono di uno dei Frammenti del filosofo dell'eterno ritorno che annuncia:"La novità della nostra attuale posizione verso la filosofia è una convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: cioè che non possediamo la verità!" Ecco, questo pensiero (il debolismo) vuole essere una finestra sulla Storia, uno sguardo che procedendo a ritroso scopre l'età della debolezza come il 'mezzogiorno dell'umanità', l'epoca in cui le 'ombre' sono scomparse, così da poter procedere ad esplorare ciò che ne consegue, sia nel senso del loro superamento, sia nel senso della loro continuazione indebolita. Il nichilismo è pertanto la vicenda dell'ontologia occidentale, regione dell'essere in cui 'dell'essere non ne è più nulla'. 'Forma formante' del pensiero debole, almeno così affermano i suoi teorici, è il non rivendicare nessuna sovranità, il non lasciarsi niente alle spalle, il conservare tutto -ovvero: nulla viene scartato- assumendo il passato nel senso del 'Gewesenes' heideggeriano, un passato che ha a che fare con l'invio e con il destino, dove destino non rinvia alla cieca fatalità, ma vuol dire qualche cosa che non è puro arbitrio: testimonianza di una radice che nel costituire il nostro Oggi scorre nel letto del tempo - storia, e qui rispecchia di se stessa; impossibile non abusare di un'immagine di Hegel che esprime perfettamente il fulcro di questa vicenda concettuale:"(noi..) siamo il fiore più splendente del tempo, nel nostro occhio brilla ciò che ci alimenta". La chiave d'accesso al 'palazzo dei flebili' (così li ha chiamati C.A.Viano nel suo pamphlet "Va' pensiero") assume allora una forma precisa: accogliere questo destino nel senso dell'invio. L'ontologia ermeneutica dell'Oggi può perciò dichiararsi debole proprio perché l'Oggi come effettività è animato dalla Storia come cammino di una costante consumazione. A volte (in ciò sta la nostra arditezza) si ha come l'impressione che il pensiero debole assomigli ad una sorta di sala d'attesa che, ospitando elementi heideggeriani e nietzscheani, ci prepara a ricevere qualcosa, o meglio: avverte che noi accediamo all'essere solo tramite delle condizioni di possibilità che abbiamo ereditato dalla nostra tradizione storica, condizioni che hanno una provenienza e che costituiscono il nostro tempo; noi siamo dentro questa 'Ueberlieferung' (sussurrano i flebili), articolazione del compreso dove conoscente e conosciuto si appartengono già: questa è ermeneutica. Parafrasando Hegel dentro queste premesse si potrebbe dire che nel darsi delle "cose" a noi e nello stare dentro il circolo di questa provenienza restituiamo al sole il calore e la luce con cui illumina e riscalda quest'orizzonte di apertura: animazione di un radicamento in cui vi è un ricevere e un restituire. Qui si riconosce il potente vibrare della dialettica, queste sono le arcinote avventure della differenza: il dire nel detto, il dire dopo il detto; ecco, 'nessuna cosa è dove la parola manca', solo così l'essere ha la sua dimora. Hegel sosteneva che non è il puro caso a determinare il sorgere di nuove filosofie, soprattutto in tempi segnati da una certa 'leggerezza' come i nostri queste sono il segno che alcune "forze" si sono affievolite e che altre si stanno annunciando con vigore: proprio quest'ultime hanno il compito di traghettarci verso nuove epoche di stabilità. La Krisis è un crepuscolo in cui qualcosa perde consistenza e qualcos'altro invece ne acquista. Tutto questo è l'ossigeno di una filosofia che vuole essere un'ontologia del declino, che per dirsi tale - ed è ciò che qui molto brevemente si sostiene - deve, per un verso, radicarsi (individuare, indicare, etc
) con degli appigli che, se osservati da vicino, non hanno dei punti d'appoggio propriamente 'deboli'. Qui la logica (e il buon senso
) di Aristotele ci indica una possibile via: si potrebbe dire infatti, rimescolando il suo linguaggio e rapportandolo al nostro, che nel momento in cui si indica un qualcosa che è soggetto a 'indebolimento' si sta rilevando anche (implicitamente) un punto di forza; di contro, il corretto ragionar debolista non si opporrebbe più di tanto ad una simile logica, poiché nel suo spettro concettuale è proprio questo il 'punctum dolens', ovvero: qualcosa che "governava con monolitica solidità" ora si è dissolto nelle sue stesse "province"; e così si è passati dall'essere di Parmenide alla volontà di potenza di Nietzsche, dall'essere come struttura stabile all'essere come 'Erignis'. Il pensiero della Storia dell'essere come declino è allora pensiero di questo 'continuum', pensiero di una tradizione, pensiero di qualcosa che giunge a noi come tramandamento. Tuttavia, accettare una relazione con una simile intimità tra essere, storia e linguaggio vuol dire disporsi nella condizione per cui tutto è rimesso al 'continuum' del tempo-storia, significa trovarsi in una situazione in cui accediamo alle "cose" solo nell'obbedienza ad esso: nemmeno per un istante possiamo liberarci dal suo "governo", in ogni momento non possiamo che essere in un rapporto di dipendenza , in un rapporto di filialità! In questo scenario l'immagine, e il senso ... del tempo-storia assomiglia più alla 'cometa' di Husserl che all' 'Angelo della Storia' di Klee di cui parla Benjamin: faccenda heideggeriana in uno scheletro hegeliano. Ben si comprende allora che l'ermeneutica dell'effettività di cui parla il filosofo dell''Erignis' lavora e plasma le fondamenta del pensiero debole: l'occhio, per Heideggger, necessita di un radicamento, deve essere annidato in una continuità, per questo sin dal principio siamo presi dall'alterità di qualcosa che ci è preliminare. Quanto delineato finora è , per alcuni versi, rintracciabile seguendo alcune tappe decisive di una certa tradizione continentale che ha segnato interi schieramenti filosofici del 900', per esempio: nel laboratorio teoretico che prepara Essere e Tempo - ci riferiamo allo scritto giovanile intitolato Ontologia ermeneutica dell'effettività - Heidegger delinea (a scapito di qualche lettore
) cosa significhi essere immersi in un'apertura, scrive infatti: "Il concetto non è uno schema ma una possibilità dell'essere, dell'attimo, ovvero costitutivo dell'attimo, un significato attinto
(
) nostra precognizione". Ecco: nell'attimo il concetto è presente, familiare; non c'è attimo senza familiarità col concetto, l'attimo si offre nella possibilità del concetto, possibilità concettuale: il concetto è ciò che è comune agli attimi, nostra precognizione
.., un significato attinto
.! Qui si rileva il tratto essenziale della nostra fatticità: la nostra vita, i nostri attimi, il nostro tempo sono resi possibili a partire da ciò in cui siamo inscritti, è l'unità di questa continuità che genera la nostre possibilità. Ermeneutica significa perciò esser-già dentro un "grembo", ricevere un punto di vista: nell'attimo in cui diciamo una parola noi la stiamo raccogliendo. Il 'Dasein' heideggeriano, uno dei perni vitali dell'impalcatura debolista, si alimenta di questa stoffa di tempo-storia, vive di una tradizione; volendone fare una sorta di archeologia dovremmo dire che il concetto di 'Dasein' vive di molte stratificazioni in cui l'influenza di Dilthey è tanto presente quanto decisiva, nei Nuovi studi sulle scienze dello spirito si legge: "Da questo mondo dello spirito oggettivo il nostro io trae il suo nutrimento (
) la navicella della nostra vita è trascinata da una continua corrente che la spinge, e il presente è sempre ovunque là dove noi siamo su queste onde". Se il nutrimento dell'io
, la navicella
, la continua corrente
di cui parla Dilthey vengono letti nella direzione di quello che Hegel nell'Enciclopedia indica come il 'principio dell'esperienza dello spirito vivente', principio secondo il quale 'l'uomo, per accettare e tener per vero un contenuto, deve esserci dentro esso stesso', risulterà palmare che l'hegelismo affonda le sue radici ben in profondità nel terreno su cui son germogliate le filosofie post-heideggeriane; lo stesso Heidegger d'altronde, nella piena maturità, ritenne necessario un ripensamento del rapporto della sua filosofia con quella di Hegel. E' chiaro che secondo queste premesse il tempo - storia (cellula del pensiero debole) risuona di una memoria troppo forte per non avere i tratti del 'Grund' che trattiene tutto a sé nella corrente del suo dispiegarsi: proprio per questo certe filosofie dovrebbero guardare ad altre avventure del pensiero, volgersi verso forme di razionalità per cui l'idea di continuità ha il destino di schiacciare e di livellare tutto al suo passaggio. Forse nel cuore del debolismo, più che la possente 'armonia' della differenza ontologica, si dovrebbe poter ascoltare la voce di Benjamin che bisbiglia: l'immagine dialettica è un immagine folgorante
..il ricordo è la reliquia secolarizzata
..la reliquia proviene da un cadavere
.ecco il ricordo di un'esperienza defunta.
Gianni Vattimo, scrive: "Quanto a me e al pensiero debole, dirò molto francamente che questa mi sembra la sola filosofìa cristiana praticabile dopo la dissoluzione della metafisica. ... Il pensiero debole è ... una forte teoria dell'indebolimento come destino dell'essere ... ciò che sappiamo del mondo è mediato dal sistema dell'informazione - non miti, non favole, ma certo non specchio di una possibile oggettività. E il mondo dei valori è anch'esso tutto permeato di storicità ...La mia ipotesi è che tutto questo cammino del nichilismo, che rompe la schiavitù dell'uomo verso l'oggettività, sia il cammino stesso della storia della salvezza".